Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione sedicesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. La struttura del sapere

 

 

 

 

 

Le considerazioni che abbiamo proposto discorrendo della prassi della misurazione debbono ora guidarci nel nostro tentativo di far luce su un terreno nuovo: sul terreno della strutturazione complessiva del nostro sapere.

Di questa struttura conosciamo già qualche indizio: ci è noto che di molte proposizioni è lecito dire che le sappiamo e che queste proposizioni sono tutte caratterizzate dal fatto che di esse possiamo rendere conto. Queste proposizioni sono le proposizioni che, in un senso forte del termine, chiamiamo vere, e vera è una proposizione solo se vi sono ragioni che ci permettono di decidere relativamente alla sua verità o falsità (Della certezza, op. cit., § 200). Detto in altri termini: una proposizione vera è una proposizione fondata su altre proposizioni che legittimano la mossa che decide del loro valore di verità. Qui il parallelismo con la prassi di misurazione è evidente: le proposizioni vere occupano nel contesto della struttura del nostro sapere lo stesso posto che nella prassi della misurazione occupano i risultati cui essa mette capo. Anche del risultato della misurazione ha un senso chiedersi quale sia la ragione che lo legittima ed anche in questo caso può avere un senso parlare di una catena di fondazione: posso misurare la grandezza della facciata di un palazzo contando quante volte si ripete in essa un certo modulo architettonico, di cui ho precedentemente preso le misure. Ma proprio come nel caso della misurazione, si deve riconoscere che ogni misurare si rapporta infine ad un'unità di misura di cui non ha senso predicare la lunghezza, così anche nel caso delle proposizioni vere si deve riconoscere che la catena di fondazioni che le sorregge deve infine giungere ad un terreno che non può essere ulteriormente fondato. Wittgenstein lo osserva più volte:

C'è certamente giustificazione, ma la giustificazione ha un termine (ivi, § 192).

A un certo punto si deve passare dalla spiegazione alla descrizione pura e semplice (ivi, § 189).

Una ragione può essere indicata soltanto all'interno di un gioco. Vi è un termine della catena delle ragioni ed esso coincide con i limiti del gioco (Philosophische Grammatik, in Werkausgabe, v, op. cit., § 97).

E se vi è un termine alla catena delle giustificazioni, allora si dovrà anche riconoscere che là dove le ragioni finiscono ci si imbatte necessariamente in proposizioni che non possono più dirsi né vere né false, in un fondamento per cui non ha senso chiedersi che cosa parli a favore e che cosa contro:

se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso (Della certezza, op. cit., § 205).

Non è difficile comprendere il senso di queste proposizioni muovendo dall'analogia con la prassi della misurazione. "Di una cosa non si può affermare e nemmeno negare che sia lunga un metro - del metro campione di Parigi" - così osservava Wittgenstein, e questa stessa tesi deve valere ora anche su un terreno più generale: se possiamo dire vere solo le proposizioni fondate e se la catena delle giustificazioni ha un limite, allora è evidente che le proposizioni vere debbono ricondurci ad un terreno che non è né vero né falso, proprio come la misurazione ci riconduce ad un metro campione di cui non si può predicare la lunghezza.

Tutto questo è relativamente chiaro. Che la prassi del misurare abbia bisogno di un metro campione è ovvio, così come non è difficile comprendere perché del metro campione non si possa accertare la grandezza: ciò che funge da paradigma non può controllare se stesso, più di quanto non si possa verificare la veridicità delle notizie pubblicate su un giornale comprando un'altra copia dello stesso giornale. Ma appunto: perché le cose debbono stare così anche al di là della prassi del misurare? Che cosa ci spinge a sostenere che questa forma possa essere generalizzata? Rispondere a questi interrogativi significa rammentare ancora una volta la natura dei giochi linguistici e il loro porsi come il fenomeno originario entro cui si definiscono i significati di cui ci avvaliamo. Così un gioco linguistico è senz'altro il misurare la lunghezza di un oggetto o, per esempio, l'affermarne l'esistenza, e nell'uno e nell'altro caso ha senso sostenere che si tratta di giochi linguistici che mettono capo a risultati, di cui si può chiedersi se siano veri o falsi. E tuttavia, proprio come nel caso del misurare, anche nel gioco linguistico della posizione di esistenza non avrebbe senso sostenere che potremmo sempre sbagliarci, e questo semplicemente perché se ci sbagliassimo sempre non potremmo elevare alcuna mossa a criterio paradigmatico cui ricondurre il gioco del dichiarare esistente. Dire che un oggetto esiste significa questo - significa, per esempio, toccarlo, vederlo, afferrarlo o, più in generale, averne una diretta esperienza: su questo non abbiamo dubbi. Ma se ora ci si chiedesse che cosa giustifica questa mossa del nostro gioco - che cosa, in altri termini, ci permette di dire che un oggetto c'è se lo vedo e lo tocco non potremmo che esprimerci così: il gioco del porre qualcosa come esistente si gioca così, questa è la regola che lo sorregge. Ne segue che il gioco linguistico che pone qualcosa come esistente pone insieme se stesso come paradigma cui deve richiamarsi ogni posizione di esistenza: negare che si possa essere certi che qualcosa c'è, vorrebbe dire negare la regola del gioco linguistico che definisce che cosa voglia dire affermare o dubitare che esistano cose. Di qui la conclusione di Wittgenstein: prima del dubbio e dell'errore debbono esservi proposizioni certe che fissino il paradigma e la regola dei giochi linguistici - di quei giochi linguistici entro i quali soltanto è possibile il dubbio e l'errore. Ma ciò è quanto dire: quanto più ci allontaniamo dalle proposizioni fondate per riaccostarci alle certezze entro cui si determina il paradigma di un gioco linguistico, tanto più arduo diviene immaginare come possa darsi l'errore:

non è dunque vero che passando dall'esistenza del pianeta a quella della mia mano l'errore si limita a diventare sempre più improbabile. Piuttosto, a un certo punto, non è nemmeno più pensabile (ivi, § 54).

Non è più pensabile, naturalmente, non perché vi siano certezze rispetto alle quali siamo infallibili, ma perché negare le esperienze paradigmatiche su cui si fonda la posizione di esistenza significa insieme cancellare lo spazio logico entro il quale ha senso affermare o negare l'esistenza di qualcosa.

Gli esempi possono essere moltiplicati. Posso naturalmente dubitare che tu sia davvero contento di vedermi e posso convincermi che il tuo sorriso sia falso e dissimuli una diversa affettività: il gioco che sorregge l'attribuzione di uno stato d'animo contempla la possibilità dell'inganno. Ma non può contemplarla sempre: posso pensare che tu ora mi inganni solo perché la regola dell'attribuzione normale degli stati animo è tenuta ben salda da una molteplicità di situazioni paradigmatiche, di esempi tanto certi quanto indiscutibili:

Siamo forse troppo precipitosi nell'assumere che il sorriso del lattante non sia simulazione? - E su quale esperienza poggia la nostra assunzione? (Il mentire è un gioco linguistico che deve essere imparato, come ogni altro) (Ricerche filosofiche, op. cit., § 249).

E tuttavia, se non possiamo pensare che il sorriso del lattante sia simulazione non è perché in generale i bambini piccoli siano troppo onesti per volerci ingannare. La questione è un'altra: è che qui abbiamo a che fare con un'esperienza elementare che assolve ad una funzione paradigmatica - la sua certezza è innanzitutto espressione della funzione che a quella proposizione compete nel complesso dei giochi linguistici ad esso simili e non parla affatto di una presunta infallibilità in chi la pronuncia. Ancora una volta l'analogia con la prassi della misurazione deve indicarci il cammino: proprio come il metro campione trae la sua necessaria invarianza dal ruolo che assume nella prassi del misurare, così la certezza obiettiva delle proposizioni che fungono da fondamento non implica affatto che chi le nega sia in errore. Potrebbe accadere che un determinato gioco linguistico si rivelasse impraticabile:

Forse se qualcuno supponesse che tutti i nostri calcoli sono incerti e che non possiamo fidarci di nessuno di essi (giustificando la sua supposizione con l'osservazione che gli errori sono dovunque possibili) noi diremmo che è pazzo. Ma possiamo dire che è in errore? Costui non reagisce, semplicemente, in modo diverso dal nostro? Noi ci fidiamo dei nostri calcoli, lui non se ne fida. Noi ne siamo sicuri, lui no (Della certezza, op. cit., § 217).

Quale sia il senso di quest'osservazione è presto detto. Wittgenstein intende osservare che la nostra incapacità di dubitare di ogni calcolo non è una garanzia del fatto che vi siano calcoli che sfuggano alla possibilità dell'errore; la tesi che intende sostenere è diversa: è che la natura del calcolo può essere appresa solo attraverso il rimando paradigmatico alla prassi del calcolare - ad un calcolare che, proprio in quanto funge da modello, non può essere messo in dubbio.

Così si calcola; in queste circostanze un calcolo viene trattato come incondizionatamente degno di fede, come sicuramente giusto (ivi, § 39).

Il calcolo viene trattato come incondizionatamente certo - questo è il punto. Wittgenstein non parla di certezza apodittica, non dice che in certi calcoli non possiamo sbagliarci, ma osserva che se "l'essenza del calcolare l'abbiamo imparata imparando a calcolare" (ivi, § 45), allora le forme elementari del calcolo sono insieme gli assiomi (le forme esemplari e paradigmatiche) su cui si fonda ogni altro calcolare. E ciò è quanto dire che la certezza di cui qui discorriamo è una certezza obiettiva, che non trae il proprio fondamento dalla soggettività, ma dalla funzione che ciò che è certo assolve nel sistema della conoscenza. Almeno su questo terreno, dunque, la certezza si pone come certezza obiettiva, come certezza che esclude logicamente la possibilità dell'errore (ivi, § 194) proprio perché essa deriva dalla funzione paradigmatica di determinati asserti nel sistema della conoscenza.

Sul significato di questa affermazione è opportuno soffermarsi un attimo. Abbiamo parlato, in primo luogo, di certezza obiettiva, e questo termine deve essere sottolineato poiché anche qui ci si mostra la distanza che ci separa da Moore. Pensiamo alle pagine della Difesa: qui il porsi della certezza assume la forma di un resoconto in prima persona che può essere reso intersoggettivo solo se ciascuno di noi accetta di recitare a suo nome la lunga teoria di "Io so che..." cui Moore ci invita. La posizione di Wittgenstein è diversa. Ciò che Wittgenstein intende sostenere non è qualcosa che concerna il rapporto tra la soggettività che sa e certe proposizioni, ma la funzione che queste stesse proposizioni assolvono nel contesto del sistema delle nostre credenze:

Voglio dire: del fondamento di tutto l'operare con i pensieri (con il linguaggio) fanno parte non soltanto le proposizioni della logica, ma anche certe proposizioni che hanno la forma di proposizioni empiriche. - Questa determinazione non è della forma "Io so che...". "Io so che ..." enuncia quello che io so, e questo non ha interesse logico (ivi, § 401).

E tuttavia, proprio perché la certezza è obiettiva e indica la funzione delle proposizioni obiettivamente certe nel sistema del sapere non è affatto lecito sostenere che la certezza parli in nome di un punto (forse lontano all'infinito) in cui il soggetto tocchi con mano la verità e possa quindi dirsi, in virtù di questo contatto, definitivamente protetto dall'errore. Per quanto ciò possa suonare strano, sarebbe forse opportuno affermare che quando parliamo di certezza vogliamo dire che l'errore è soltanto escluso logicamente - che escluso cioè solo in quanto questa è l'assunzione su cui il gioco linguistico poggia:

si deve dire che la sicurezza è soltanto un punto costruito, cui alcune cose si approssimano di più, altre di meno? No. Il dubbio perde gradatamente il proprio senso. È così che questo gioco linguistico è fatto (ivi, 56).

Voglio dire: non è che in certi punti l'uomo conosca la verità con sicurezza completa. Ma anzi la sicurezza completa si riferisce soltanto al suo atteggiamento (ivi, § 404).

Di questo tratto complessivo delle pagine wittgensteiniane non è difficile trovare conferma nei pensieri di Della certezza. Almeno in prima approssimazione è infatti lecito sostenere che il carattere di certezza e di indubitabilità che è proprio di alcune proposizioni deriva loro dal loro porsi come asserzioni ma insieme anche come postulati su cui la ricerca poggia. La nostra immagine del mondo poggerebbe così su alcuni asserti cui si chiede di fungere da postulati e che, proprio in virtù di questa funzione, debbono essere poi messi al riparo dalla possibilità di una qualche correzione empirica:

Una proposizione assertoria che fosse in grado di funzionare come ipotesi, non potrebbe anche essere usata anche come principio della ricerca e dell'azione cioè, non potrebbe essere semplicemente sottratta al dubbio, anche se ciò non avviene in conformità con una regola esplicita? Semplicemente la si accetta come un'ovvietà, non la si mette mai in questione e forse neppure la si enuncia (ivi, § 87).

Può darsi, per esempio, che tutta quanta la nostra ricerca sia orientata in modo che certe proposizioni, ammesso che vengano mai formulate, stiano al riparo da ogni dubbio. Stanno fuori della strada lungo la quale procede la ricerca (ivi, § 88).

In altre parole: fa parte della logica delle nostre ricerche scientifiche che di fatto certe cose non vengano messe in dubbio (ivi, § 342).

Vorrei dire: quello che asserisce di sapere, Moore non lo sa; ma è incontestabilmente stabilito per lui come anche per me; il considerarlo dunque come qualcosa di incontestabile fa parte del metodo del nostro dubitare e del nostro ricercare (ivi, § 151)

Il dire, nel senso in cui lo dice Moore, che l'uomo sa qualcosa, che dunque quello che dice è senz'altro la verità, mi sembra falso. - È la verità soltanto nella misura in cui è un fondamento incrollabile dei suoi giochi linguistici (ivi, § 403).

Un tratto accomuna queste osservazioni wittgensteiniane: il loro riconnettere il problema della certezza ad un'istanza metodologica. Di certe proposizioni (che spesso nemmeno formuliamo) non dubitiamo, e non dobbiamo dubitarne perché ne facciamo il fondamento di quel sistema entro il quale soltanto ha senso dubitare e cercare fondamenti. Di qui la tendenza a rendere prive di senso le richieste di mettere in questione gli asserti (espliciti o impliciti che siano) su cui poggiano i giochi linguistici. Per dirla con Wittgenstein: il considerare certe alcune proposizioni fa parte del nostro metodo del dubitare. È una mossa che deve essere compiuta per difendere lo spazio logico del gioco linguistico da un atteggiamento che solo apparentemente è dominato da grande spirito critico ma che è in realtà espressione di una vera e propria negazione delle condizioni di possibilità dell'accordo intersoggettivo - di quell'accordo che poggia sulla disponibilità, da parte di chi ascolta, a seguire la regola che si manifesta esemplarmente nella prassi e nel comportamento del parlante.

È in questa luce che debbono essere colte le osservazioni che Wittgenstein dedica al rapporto tra un maestro e uno strano scolaro che sembra disposto a dubitare di tutto:

uno scolaro e un maestro. Lo scolaro non si lascia spiegare nulla perché interrompe continuamente il maestro con dubbi riguardanti, per esempio, l'esistenza delle cose, il significato delle parole, ecc.. Il maestro dice: "Non interrompermi più, e fa' quello che ti dico; finora il tuo dubbio non ha proprio nessun senso" (ivi, § 310).

Il maestro deve alzare la voce, poiché qui il dubbio non ha ancora alcun senso, se non quello di impedire l'apprendimento e quindi, più in generale, di negare lo spazio dell'accordo che il gioco linguistico apre. Ma ciò è ancora una volta quanto dire che il bambino deve credere al maestro, che non può dubitare di tutto e tanto meno delle mosse istitutive dei giochi linguistici. Il bambino che ascolta il maestro deve accettare la regola che gli viene proposta, - deve se non vuole abbandonare il terreno comune del dialogo Così, se l'addestramento riceve un ruolo essenziale è perché esso svolge una funzione etica minimale: in esso si realizza infatti la possibilità dell'accordo. Si realizza se il bambino è appunto disposto ad essere ragionevole - a non dubitare di ciò di cui nessuno dubita e ad accettare di seguire la regola che tutti seguiamo:

consideriamo ora questo tipo di gioco linguistico: B deve scrivere, dietro ordine di A, certe successioni di segni secondo una determinata legge di formazione. La prima di queste successioni sarà quella dei numeri naturali nel sistema decimale. - Come impara B a comprendere questo sistema? - Anzitutto gli si fa vedere come si scrivono quelle successioni numeriche e gli si chiede di copiarle [...] Forse in un primo tempo gli guidiamo la mano mentre copia la successione da 0 a 9; ma poi la possibilità di una comprensione reciproca dipenderà dal fatto che egli continui a scrivere i numeri da solo (Ricerche filosofiche, op. cit., § 143).

Dobbiamo così, per Wittgenstein, prendere definitivamente commiato da un'immagine del sapere che ha le sue radici antiche sin nei Dialoghi platonici: l'immagine di un sapere che nasce in seno ad uno spirito critico radicale, ad un'intelligenza che non accetta senza dubitare o interrogarsi. Al dialogo e alla sua struttura di interrogazione reciproca si deve sostituire così la relazione asimmetrica dell'insegnamento, che presuppone nell'alunno una disposizione a seguire - quella docilità che è già tutta racchiusa nella radice del verbo doceo. Lo scolaro deve essere docile, perché questo, appunto, fa parte del metodo del cercare e del dubitare: non mettere in questione il fondamento che li rende possibili. Almeno ad un primo livello del problema si deve dunque riconoscere che la "razionalità" dello scolaro che accetta di proseguire nelle spiegazioni senza fare troppe domande deve essere davvero scritta così, sotto il segno modificante delle virgolette, poiché è evidente che nell'atteggiamento di chi accetta senza porsi interrogativi di seguire il maestro nelle sue spiegazioni non si può certo scorgere la luce critica della ragione. Almeno ad un primo livello, parlare di razionalità significa in questo contesto alludere ad un atteggiamento di ragionevolezza, - dove con questo termine intendiamo soltanto quella pacatezza d'animo che, per amor di pace, rifiuta di mettersi in contrasto con gli altri.

E tuttavia, da questo breve racconto filosofico che narra di un maestro e di uno scolaro che lo tempesta di domande non dobbiamo lasciarci ingannare. Non così normalmente vanno le cose. "Il bambino impara - scrive Wittgenstein - perché crede all'adulto. Il dubbio viene dopo la credenza" (ivi, § 160) - un'osservazione che per noi è importante proprio perché mette l'accento sul fatto che normalmente il dubbio non si affaccia mai alla coscienza, poiché la vita si muove sul terreno della certezza. Alla domanda che Wittgenstein si pone

Voglio dunque dire che la sicurezza risiede nell'essenza del gioco linguistico? (ivi, § 457).

si deve dunque dare una risposta affermativa. Alla ragionevolezza del bambino che deve piegarsi ad apprendere ciò che il maestro gli dice fa così eco la sicurezza che fa da sfondo ad ogni nostro gioco linguistico e che di fatto esclude la possibilità del dubbio. Si dubita solo per ragioni ben precise (ivi, § 458), e vi sono casi in cui un dubbio non è soltanto irragionevole, ma è logicamente impossibile, anche se non esistono regole e criteri precisi per tracciare un confine tra dubbi ridicoli e dubbi insensati.

E tuttavia riconoscere che vi sono limiti al dubbio non significa affatto sostenere che vi sono cose che ci appaiono tanto certe da non poter essere revocate in dubbio. Ancora una volta dobbiamo mettere da parte ogni considerazione di natura psicologica e riconoscere che la certezza non è una questione di opinioni e non dipende dal nostro vissuto soggettivo, ma è sancita dalla forma dell'accordo su cui poggiano i nostri giochi linguistici. Se non posso dubitare di tutto è perché

Qualcosa ci deve essere insegnato come fondamento (ivi, § 449).

A difendere le certezze dalle insidie del dubbio non è dunque il lume naturale, ma la posizione che esse occupano nell'immagine complessiva del mondo che ci è stata tramandata e che si attaglia alla nostra forma di vita. Ma ciò è quanto dire che il dubbio sui fondamenti deve essere bandito perché mette in forse la possibilità dell'accordo, cancellando così lo spazio per una riflessione razionale. Ed a partire di qui per l'autoritarismo del maestro e per l'atteggiamento supino dell'alunno sembra aprirsi lo spazio per un'apologia.

 

 

 

 

 

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