Pirrone e Democrito.

Gli atomi: un "mito"?

- Fernanda Decleva Caizzi -


A partire dal II secolo a.C. si fissò e si diffuse in Grecia un genere di storiografia filosofica che riuniva e collegava i pensatori in "successioni". Riconducibile, a quanto sembra, a Sozione di Alessandria, autore appunto di una Diadochai tôn philosophôn, essa si caratterizzava per il fatto di ricondurre le relazioni concettuali riscontrabili fra filosofi a rapporti di scuola: rapporti talora storicamente attestati, talora invece, per esigenze sistematiche e di completezza, artificiosamente instaurati anche a prezzo di pesanti forzature cronologiche. In molti casi lo storico moderno non incontra eccessive difficoltà nell'individuare le fonti e i meccanismi esegetici che hanno portato alla costruzione della "successione", ma non sempre è così. Particolarmente interessante è la successione scolastica che muove dagli Eleati, passa attraverso i Democritei e giunge ai Pirroniani antichi. Per quanto riguarda la connessione tra eleatismo e atomismo furono certamente determinanti le osservazioni di Aristotele e Teofrasto, mentre per l'inserimento del pirronismo dovette essere decisivo l'intervento personale di Sozione. Autore di un commento ai Silli, la raccolta filosofico-satirica in poesia di Timone di Fliunte, il più importante discepolo di Pirrone, e buon conoscitore del materiale biografico e filosofico relativo al primo pirronismo, Sozione fondò la propria scelta organizzativa sia su dati di natura esterna (la relazione tra Pirrone e Anassarco di Abdera, che si frequentarono nel corso della spedizione di Alessandro Magno in Oriente), sia su elementi concettuali, tratti dalle opere dei primi discepoli di Pirrone, che per parte sua non aveva scritto nulla. Appare probabile che proprio Timone fosse tra le fonti principali su cui Sozione si appoggiava, e dunque merita soffermarsi su ciò che di lui ci è rimasto. Per quanto ci è oggi possibile giudicare, emergeva nei Silli un apprezzamento perlomeno parziale nei confronti degli Eleati, per il loro contributo alla critica dell'apparenza sensibile. Senofane, in particolare, è scelto da Timone come guida negli immaginari incontri coi filosofi del passato che costituiscono l'oggetto dei Silli. Chiaramente percepibile è anche la presenza di echi senofanei e parmenidei nell'altra opera poetica di Timone che aveva per oggetto Pirrone, gli Indalmoi (Immagini). Meno evidente - almeno i base a quello che possediamo - è la posizione di Timone verso la scuola di Abdera: su Democrito ci sono stati trasmessi due versi dei Silli (fr. 46 Diels) di non facile interpretazione, mentre il giudizio espresso su Anassarco (fr. 58 Diels) mescola ad un elemento positivo il rimprovero di non aver saputo dominare una natura tendente al piacere. Più significativa, come punto di partenza per la nostra indagine, è una testimonianza antica, riportata da Diogene Laerzio (Vite dei filosofi IX 67 = Pirrone T 20 Caizzi), secondo cui «Anche Filone di Atene, divenuto suo seguace (sc. di Pirrone) diceva che Pirrone era solito richiamarsi soprattutto a Democrito e poi anche ad Omero, ammirandolo e spesso ripetendo (Il.VI 146) "quale la stirpe delle foglie, tale quella degli uomini", e che soleva paragonare gli uomini alle vespe, alle mosche, agli uccelli; citava anche questi versi (Il. XXI 106) "su amico, muori anche tu; perché così ti lamenti? / morì anche Patroclo, che era di molto migliore di te", e tutti quelli che fanno riferimento all'instabilità, alla vacuità e alla puerilità degli uomini». Come si vede, il passo non ci dice che cosa precisamente Pirrone apprezzasse in Democrito. Benché il contesto generale riguardi il rimprovero che Pirrone muoveva alla umana stoltezza, in chiave decisamente morale, non possiamo trarne la conclusione che Democrito fosse citato elogiativamente accanto ad Omero per i suoi aforismi etici: l'ipotesi non trova conforto in ciò che di lui ci è rimasto, che non presenta significativi paralleli col materiale pirroniano e neppure con i versi omerici citati.

Salvator Rosa, Democrito in meditazione, 1660

La questione della relazione tra Democrito e il pirronismo è stata posta a più riprese dagli studiosi dello scetticismo antico; basterà qui far riferimento ai due autori che hanno offerto contributi particolarmente significativi e decisivi per i successivi orientamenti: Rudolf Hirzel (Untersuchungenn zu Ciceros philosophischen Schriften, III, Leipzig 1883, 1 sgg.) e Paul Natorp, Die Ethika des Demokritos, Marburg 1893, 151 sgg.). A Hirzel, in polemica con la trattazione di Eduard Zeller (Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Dritter Teil, erste Abteil) si deve l'accentuazione della connessione tra democritismo e pirronismo: essa viene usata come elemento di distinzione netta tra la scepsi accademica e quella pirroniana, la prima affondante le proprie radici in Socrate e nella tradizione dialettica, la seconda invece attenta alle aporie e alle contraddizione dell'esperienza sensibile. Secondo Hirzel, nei tropi scettici (attribuiti a Enesidemo di Cnosso, I sec. a.C.) è possibile rintracciare echi di problematiche democritee, che ci consentono di distinguere il materiale più antico da quello successivo. Con un'analisi che resta tuttavia troppo sommaria, Hirzel avanzava l'ipotesi che anche la dottrina del telos o del fine morale, cioè l'atarassia o imperturbabilità propugnata da Democrito, venga ripresa dagli Scettici pirroniani e da questi si trasmetta agli Epicurei. E' bensì vero, egli nota, che la dottrina fisica degli atomi e del vuoto differenzia profondamente gli Atomisti dagli Scettici, ma la cosa non dovrebbe essere considerata determinante, perché nello scritto Peri euthymias (Sulla tranquillità dell'anima) Democrito, probabilmente, lasciava da parte la fisica per parlare dell'insicurezza del sapere umano e Pirrone si sarebbe riallacciato proprio a questo tema.

Paul Natorp, per parte sua, mette in luce in modo assai più approfondito di quanto non faccia Hirzel la connessione stretta tra etica democritea ed etica pirroniana; essa non è, a suo parere, di natura meramente terminologica, ma anche stricto sensu concettuale. Assai interessante - e non ha avuto da parte degli studiosi di Pirrone l'attenzione che merita - risulta il rilievo dato alla contrapposizione, rilevabile nei testi democritei, fra ciò che è stabile ed identico, e ciò che muta e si trasforma continuamente: una contrapposizione che ritorna nelle testimonianze su Pirrone e che Natorp coglie soprattutto nei versi rimastici degli Indalmoi, sottolinenando con grande finezza la matrice eleatica che sta alla base dell'antitesi e che costituisce il filo conduttore che dall'eleatismo scende, tramite l'atomismo, fino a Pirrone.

Benché l'interpretazione dell'etica di Democrito offerta da Natorp sia stata giudicata troppo 'platonizzante', e benché egli non abbia approfondito, rispetto a Pirrone, gli spunti fecondi che aveva messo in luce, nell'opera del filosofo di Marburgo si leggono alcune osservazioni di grande importanza, che sembrano in realtà adattarsi meglio al materiale pirroniano che a quello democriteo considerato nel suo complesso. Natorp distingue l'apatheia (impassibilità) di Pirrone dalla metriopatheia (turbamento misurato) degli Scettici successivi, considerando la prima come la più coerente esplicazione dell'atarassia democritea intesa in senso forte; fondamentalmente differente resta però nei due filosofi il modo di conseguirla: per entrambi essa consiste nell'eliminazione delle opinioni errate, per Pirrone relativamente alla realtà tutta, per Democrito relativamente alla sola realtà sensibile.

Su quest'ultimo punto, la posizione di Natorp si allinea a quella di Hirzel, offrendo una valutazione sul punto focale di convergenza-divergenza dei due pensatori che si è mantenuta sostanzialmente costante presso tutti gli studiosi successivi. Essa ha come testo di riferimento privilegiato il fr. 9 Diels-Kranz di Democrito ("per convenzione il dolce, per convenzione l'amaro, per convenzione il caldo, per convenzione il freddo, per convenzione il colore, secondo verità gli atomi e il vuoto"). Pirrone avrebbe radicalizzato la critica che Democrito rivolgeva al mondo dell'esperienza sensibile: non solo le qualità sensibili, ma nulla affatto è secondo verità, dunque neppure gli atomi e il vuoto (per l'analisi di Diogene Laerzio IX 61 e per quest'interpretazione canonica, accolta anche da chi scrive, si veda il commento in Pirrone. Testimonianze, a cura di F. Decleva Caizzi, Napoli, Bibliopolis 1981, p. 143 sgg.). Muovendo da qui, si è inevitabilmente spinti a concludere che l'apprezzamento di Pirrone nei confronti di Democrito derivasse dall'aver quest'ultimo messo in particolare evidenza l'irrealtà del fenomeno, ribadendo la critica che era caratteristica della tradizione filosofica eleatica.

Non vi è dubbio che questa interpretazione sia, da un certo punto di vista, storicamente giustificata e fondata: pare certo che Pirrone non potesse che approvare il rilievo dato dagli Atomisti a quelle che Hirzel aveva, con espressione felice, chiamato "le contraddizioni del sensibile", quelle stesse che avevano spinto Anassarco di Abdera a parlare del mondo come di una scenografia, non più reale delle immagini del sogno o della follia. Eppure, se si riflette più a fondo sia sulla figura di Pirrone come oggi essa ci appare, sia sul complesso dell'opera di Democrito, sorge un certo senso di insoddisfazione, provocato da alcuni aspetti del quadro fin qui ricostruito, che non hanno finora attratto l'attenzione dovuta e sui quali vorrei invece soffermarmi.

Se lasciamo da parte il tema della soggettività delle qualità sensibili, che tra l'altro, a stare alla testimonianza di Teofrasto, poteva essere sviluppato anche in una direzione tutt'altro che scettica, la stragrande maggioranza delle testimonianze su Democrito a noi pervenute riguarda la dottrina degli atomi e del vuoto, considerata concordemente come il cuore della sua filosofia, nonché una serie di spiegazioni, circa aspetti del mondo fenomenico, che muovono dall'ipotesi atomistica; la stragrande maggioranza dei frammenti, che possono essere considerati citazioni vere e proprie, è invece costituita da considerazioni, prevalentemente aforismatiche, di natura etico-pratica. Anche a prescindere da ciò che, pur per noi perduto, ci rivelano i titoli delle opere di Democrito, si dovrebbe concludere, sulla base della linea esegetica sopra esposta, che Pirrone ripudi totalmente tutta la cosiddetta 'fisica' democritea; per quanto invece concerne l'etica, a dispetto degli sforzi di Paul Natorp volti a ricostruire un organico sistema morale, sui singoli punti la posizione di Democrito appare singolarmente lontana dal rigoroso radicalismo di Pirrone; ciò è facilmente constatabile anche da quanti non siano inclini ad accogliere il severo giudizio di chi giudica l'insieme dei frammenti etici democritei "dull and depressing" (J. Barnes): una valutazione analitica di questo materiale comporterebbe naturalmente l'ardua questione della sua autenticità, ma non c'è dubbio che, sul piano dei singoli testi, le divergenze tra i due filosofi appaiano assai consistenti.

A ciò non si può fare a meno di aggiungere che sembrerebbe del tutto ovvio far rientrare l'impegno che Democrito e la sua scuola dedicarono allo studio e alla spiegazione dei fenomeni cosmici nell'ambito di quell'attività che Timone di Fliunte, certamente ispirandosi al maestro, definì inutile e fonte di infelicità. Nei primi Pirroniani la critica rivolta contro coloro che cercano le cause ed i principi delle cose è ripetuta e radicale e questo trova indiretta conferma nel fatto che Timone non mancò di sottolineare che vi furono alcuni (gli Eleati) che non caddero in tale errore.

Se le cose stanno in questi termini, come mai proprio Democrito era il filosofo che Pirrone citava più spesso, a dispetto delle opere innumerevoli che l'Abderita aveva dedicato a quella scienza che egli definiva inutile e dannosa? In che cosa poteva differenziarsi dai physikoi e dai sophistai, al punto da poter essere menzionato prima di Omero, in un contesto di chiaro apprezzamento? Per dirla in altri termini: le considerazioni addotte comunemente sui rapporti tra i due filosofi sono sufficienti per fare da contraltare e controbilanciare tutti gli aspetti potenzialmente o esplicitamente 'negativi' che l'attività filosofico-scientifica di Democrito presentava? E, se veramente solo il tema della critica al sensibile fosse stato determinante agli occhi di Pirrone, perché non citare elogiativamente altri filosofi, che si erano espressi in tal senso in modo molto più radicale e coerente, e cioè gli Eleati, e tra questi soprattutto Melisso?

A ben guardare, inoltre, non sarebbe stato difficile mettere criticamente in evidenza, nell'ottica pirroniana, la contraddizione insita nel democritismo tra la svalutazione ontologica del sensibile da una parte e lo sforzo costante di coglierne le cause, di spiegare e descrivere i fenomeni, cercando di ricondurli ad un fondamento oggettivo dall'altra (e, come si vedrà più avanti, abbiamo qualche indizio che ci porta a pensare che una critica di questo tipo fosse rivolta a Democrito dai Pirroniani).

Sorge allora impellente la domanda: che cosa poteva scorgere in Democrito un filosofo come Pirrone? Per trovare una risposta almeno plausibile, è necessario guardare a Democrito con occhi diversi da quelli di Aristotele, di Teofrasto o di Epicuro, sbarazzarsi dalla mentalità scientifica odierna e chiedersi se la grandiosa visione democritea dell'universo, fondata sull'affermazione degli atomi e del vuoto, potesse essere intesa dal pensatore di Elide non tanto come la vittoria del certo sull'incerto, della stabilità sul divenire, della ragione contro i sensi, della scienza contro l'opinione, quanto piuttosto come la più ingegnosa creazione della mente umana per sanzionare in modo definitivo l'inspiegabilità e l'insensatezza del mondo. Come poteva apparire, e che cosa poteva significare tutto ciò per chi, dal particolare punto di vista di Pirrone, s'interrogava sul ruolo e sul destino dell'uomo?

Ripercorriamo brevemente i tratti della fisica democritea. Il tutto è formato da atomi infiniti per numero e per forma, che si muovono nel vuoto infinito, ed il cui incontro, scontro, intreccio e separazione dà origine a mondi infiniti e all'infinita varietà dei fenomeni. Il rischio di tale concezione apparirà chiaro agli Epicurei: Lucrezio (II 478-521) dirà che l'infinità delle forme atomiche è incompatibile con l'ordine, la regolarità e la limitatezza dei fenomeni, mentre l'infinito numero degli atomi è necessario perché avvengano aggregazioni nel vuoto infinito. Pirrone poteva conferire all'infinità delle forme attomiche postulata da Democrito un significato consono alla propria prospettiva filosofica, tesa a privare di valore, riducendoli a pura apparenza ingannatrice, proprio l'ordine e la determinatezza dei fenomeni. Piccolissime variazioni dei composti sono sufficienti a creare apparenze opposte (dalle stesse lettere alfabetiche, diceva Democrito, nascono la commedia e la tragedia). Il principio logico che informa la costruzione democritea è quello, di eredità eleatica, dell' ou mallon ('non più... che...'): esso si traduce nel principio di indifferenza, che ha una lunga storia nel pensiero dei fisiologi a partire da Anassimandro e che in Democrito opera in modo esplicito (e che i Pirroniani riprenderanno con modifiche). Nessun fine dirige l'eterno movimento degli atomi, che può essere detto, senza contraddizione, necessario e casuale, proprio perché non vi si manifesta alcun tipo di teleologia o finalismo. Il mondo in cui noi ci troviamo a vivere è il risultato di una serie di combinazioni di elementi che, nell'infinità dell'universo, possono ripresentarsi nella stessa forma o produrre forme completamente differenti. In questo quadro, insieme con ogni rassicurante concezione teleologica, può facilmente dissolversi ogni forma di antropocentrismo: l'uomo ed il suo universo non sono che una tra le infinite possibili manifestazioni nell'infinità del tempo e dello spazio. Scenario costituito dal meccanico aggregarsi e separarsi degli atomi, il mondo non possiede stabilità, realtà, o privilegio di sorta. Siamo agli antipodi del cosmo aristotelico.

Leggendo Democrito, probabilmente anche tramite l'interpretazione offertane da parte di personalità quali Metrodoro di Chio ed Anassarco, Pirrone fu profondamente colpito dalla potente fantasia immaginativa che sorregge la concezione democritea dell'universo. In particolare, la descrizione del movimento degli atomi nel vuoto poteva felicemente assurgere, ai suoi occhi, a simbolo del non senso dell'umana esistenza, dello sballottamento cui essa è sottoposta per passioni ed opinioni, delle forze di attrazione e repulsione che gettano nell'animo lo scompiglio, dei vortici della sapienza lusingatrice (cfr. T 60, 61 Caizzi): in una parola, di tutto ciò che porta alla creazione di fantasmi mentali, altrettanto inconsistenti dei fuggevoli aggregati atomici che li hanno generati.

Il movimento disordinato delle vespe delle mosche o degli uccelli, cui Pirrone paragonava gli uomini, che volteggiano come foglie al vento sbattute qua e là, in preda alle affezioni, alla vana opinione ed alla convenzione (cfr. T 58), infine la stessa rissa dei filosofi descritta da Timone nei Silli richiamano da vicino, a ben guardare, alcuni tratti significativi della descrizione democritea dell'universo. La larga concordanza delle testimonianze pervenuteci permette di stendere una lista dei termini usati in proposito da Democrito e divenuti comunque canonici nella tradizione; scorrendola, non si potrà non rimanere colpiti dal carattere accentuatamente antropomorfico di alcuni di essi, quelli che, nel linguaggio comune, indicano due momenti fondamentali dell'esistenza umana: l'attrazione e la repulsione intese nelle concrete manifestazioni dell'amore e della guerra. Mi riferisco in particolare ai vocaboli che indicano l'aggregazione degli atomi che 'genera' le cose, quali periplekesthai, che allude all'intrecciarsi delle membra nell'abbraccio, symplekesthai, symploke, che indicano sia l'allacciarsi dei lottatori nello scontro, in senso letterale o metaforico, sia anche l'amplesso amoroso, synkrousis, proskrouein e krouesthai, che alludono allo scontro ostile, suscitatore di contrasti. A questi si possono aggiungere stasiazein, allelotypia, ecc. Questa breve rassegna mostra che il linguaggio usato da Democrito portava seco una carica metaforica tale da autorizzare o almeno confortare una lettura ad essa conseguente, in una chiave non strettamente razionalistico-scientifica (merita anche ricordare che presso gli antichi Democrito era famoso per lo stile, come risulta da un apprezzamento di Cicerone).

Inoltre, la necessità che determina all'infinito ciò che è, che fu e che sarà e che al soggetto si manifesta come tyche (sorte, fortuna o caso) può avere come esito quello di privare l'individuo di ogni possibilità di attivo e significativo intervento, trasmettendogli invece il messaggio che nulla di ciò che gli capita lo riguarda direttamente, nulla è pro o contro di lui, e additandogli così il cammino della felicità nella passività e nella rinuncia. Il tema della tyche era probabilmente caro a Pirrone, se, come credo, egli fu nominato sommo sacerdote proprio del suo culto (cfr. T 11 e il commento ad l.).

Vista nella particolare prospettiva sopra indicata, la teoria democritea non appare più come uno dei tanti tentativi che uomini che si credono sapienti compiono spacciando le proprie opinioni per verità, quanto piuttosto come la rappresentazione fantastica, come la grande metafora della vera condizione dell'uomo e del cosmo, di ciò di cui si deve prender coscienza per essere felici. Ed è forse questa intuizione grandiosa che Pirrone accoglie e da cui prende le mosse per la propria personale riflessione, così che la sua filosofia può in certo modo essere intesa come ispirata dalla visione materialistico-meccanicistica di Democrito (e la sola, ai suoi occhi, ad essa conseguente).

In questo quadro l'orientamento filosofico di Pirrone si palesa come una forma di antiaristotelismo (non la sola: cfr. Pirrone, Testimonianze, cit., p. 152 sgg.) che sembra accogliere e valorizzare proprio ciò che, nel democritismo, risulta incompatibile con la visione aristotelica del mondo.

Né a quest'interpretazione di Democrito si oppone in modo decisivo la sua attività scientifica e l'interesse per le aitiologiai, le spiegazioni causali, attestato dalla tradizione.

In effetti, gli sforzi compiuti da Democrito per collegare la realtà degli atomi e del vuoto al mondo dell'esperienza si prestano ad essere letti in duplice chiave: la prima, che chiamerò per comodità ottimistico-razionalistica, considera la realtà e la dinamica atomica come ciò che ci fornisce il principio di comprensibilità dei dati sensibili (in questa prospettiva si collocano anche i ben noti rimproveri che Aristotele e Teofrasto muovono a Democrito, per non aver egli saputo o voluto conseguire coerentemente e pienamente tale scopo); la seconda, ad orientamento pessimistico, porterà a scorgere nelle varie spiegazioni sulla relazione atomi-sensibile soprattutto l'intento di rendere credibili i principi posti dalla ragione, dando conto della loro adeguatezza in quanto risultano collegabili al mondo dei fenomeni. Questo tipo di aitiologia si serve principalmente dello strumento dell'analogia, che muove da ciò che i sensi sperimentano per mostrare l'esistenza di principi la cui struttura e dinamica è in grado di dar conto di ciò che appare e che non è di per se veramente reale. Ma, a ben guardare, in questa prospettiva l'operazione di collegamento riguarda due realtà entrambe sottratte alla conoscenza: quella fenomenica perché solo apparenza, infinitamente varia e contraddittoria, creata dall'aggregarsi degli atomi nel vuoto; la realtà atomica, a sua volta, perché caratterizzata dall'infinità, che la ragione è spinta a porre per proprie esigenze ma che i propri limiti intrinseci non le consentono di comprendere veramente. Accade così che una realtà posta dalla ragione, che deve essere infinita per dar conto di ciò che appare per sua natura inconoscibile, si manifesta essa stessa come strutturalmente inconoscibile; per di più, gli strumenti che consentono di porre i due livelli in relazione tra loro poggiano proprio su quell'esperienza sensibile che viene sottoposta a critica radicale. I principi posti dalla ragione risultano così trascendere le possibilità dell'umana conoscenza; i limiti della quale si manifestano dunque non solo al livello sensibile, ma anche nella forma di una permanente aporia della ragione. Su una linea che affonda le sue radici nel pensiero arcaico, il pessimismo gnoseologico sembra dunque accompagnarsi in modo inevitabile alla concezione democritea dell'universo. La verità degli atomi comporta l'essere alogos (l'irrazionalità) della realtà che essi costituiscono. La formulazione più radicale di questa aporia è già presente nelle fonti antiche (Aezio, 67 A 22 D.-K.); più in generale, essa spiega la compresenza nella scuola di Abdera di scetticismo gnoseologico e di ipotesi razionali e scientifiche. Ben noti, del resto, sono gli sforzi compiuti da Epicuro per evitare questo rischio insito nel democritismo.

Se queste considerazioni non sono del tutto prive di fondamento, acquistano ora nuova luce i due versi dedicati a Democrito da Timone nei Silli (fr. 46 Diels):

"... come Democrito, sapiente pastore di mythoi, / ambiguo chiacchierone, fra i primi io riconobbi".

L'espressione 'sapiente pastore di mythoi' non va in alcun modo indebolita, come accadrebbe se si intendesse mythos nel senso di 'parole' o 'favole' con riferimento eminentemente stilistico: è vero invece che qui Timone allude proprio a ciò che i Pirroniani scorgevano nell'opera democritea: una grande rappresentazione fantastica, in certa misura poetica (I'interesse di Pirrone per la poesia è ben attestato, cfr. TT 20, 21, 22 e comm. ad ll.), a causa della quale era naturale, o perlomeno giustificato, accostare Democrito ad Omero, il filosofo al poeta, quali portavoce, entrambi, di una verità non 'scientifica' ma profonda e universale.

L'altro epiteto che Timone riferisce a Democrito, 'ambiguo chiacchierone' (amphinoon leschena) andrà riferito sia al fatto che Democrito scrisse moltissimo, sia soprattutto al fatto che la sua opera presenta delle oscillazioni e delle incoerenze interne che a loro volta prestano il fianco ad opposte interpretazioni, quale quella dei Pirroniani da una parte, dei Peripatetici e degli Epicurei dall'altra. Se non mi inganno, l'espressione mostrerebbe che Timone era ben cosciente che anche coloro che interpretavano Democrito in modo diverso dai Pirroniani potevano addurre a loro favore parole dello stesso Democrito.

D'altra parte, che questa duplicità di interpretazione, l'ottimistica e la pessimistica, non sia frutto di un'illusione dello storico, è confermato dalle testimonianze sul Democritus ridens, che, nel quadro qui offerto, acquistano nuova rilevanza.

Esse sono, come è noto, tutte assai tarde e proprio questo fatto ha portato gli studiosi di Democrito a non ritenerle, per lo più, particolarmente meritevoli di attenzione dal punto di vista della ricostruzione storica del filosofo (è appena il caso di ricordare che l'immagine del Democritus ridens contrapposta a quella dell'Heraclitus lugens godette di grande popolarità nella cultura cristiana e soprattutto umanistica). L'immagine di Democrito che ride di tutto e di tutti appare in Cicerone (De oratore Il 58,235 = 68 A 21), Orazio (Epist. Il 1,194) Giovenale (X 33; 47), nel frammento de ira (ap. Stob. Flor. III 20, 53) di un Sozione, da identificarsi con il maestro di Seneca, dove è contrapposta a quella di Eraclito piangente, in Luciano (Vit. auct. 14), quindi in Ippolito (68 A 40 D.-K.), Suida (68 A 2 D.-K.) e, in forma aneddotica, in Giuliano (68 A 20 D.-K.). Essa sta al centro di una serie di lettere pseudepigrafe, attribuite ad Ippocrate e Democrito, che raccontano come gli Abderiti chiamassero a consulto il medico famoso perché curasse quella che sembrava loro l'estrema follia di Democrito, e come questi giungesse alla conclusione che il filosofo era il solo vero sapiente.

Senza pretendere di toccare in questa sede la complessa e forse insolubile questione delle fonti del materiale confluito nelle epistole, evidentemente parallelo a quello noto altrimenti (quando non siano esse stesse fonti per gli autori successivi), vi sono alcuni elementi che meritano di essere sottolineati, rivelando significativi punti di convergenza tra la tradizione su Democrito e la tradizione su Pirrone.

Velazquez, Democrito (particolare)

Il tema del riso di Democrito è accostato a quello dell'infinità dei mondi in Ippolito; in forma differente, ma analoga nella sostanza, nella decima lettera pseudoippocratica; nella diciassettesima lettera, dove Democrito, intento a scrivere un'opera Sulla follia e richiesto da Ippocrate di chiarire perché rida di tutto, esordisce richiamando l'infinità dei mondi, per poi affermare di ridere dell'assurdo comportamento degli uomini. Per quanto riguarda altri membri della 'scuola' atomistica, tracce di analoghi spunti emergono da un passo di Plutarco (de tranq. an. 466D) dove Alessandro Magno, dopo aver ascoltato Anassarco parlare dell'infinità dei mondi, piange per non essere riuscito, ancora, a conquistarne neppure uno. Il pianto del re, a cui in altre testimonianze fa da contrappunto il riso del filosofo Anassarco, ricorda quello di Dario, re dei Persiani, per la morte della moglie, e le parole di consolazione offertegli da un 'ridente' Democrito.

Non c'è dubbio che per spiegare l'accentuazione del tema del riso dobbiamo far debito conto dell'influsso cinico, ma appare assai probabile che in questo quadro svolgesse un ruolo importante anche il primo pirronismo, forse a sua volta influenzato da tematiche ciniche, ma non per questo senza un apporto personale ed originale. Singolare è il fatto che le parole che Suida (68 A 2 D.-K.) riferisce a Democrito ("fu chiamato "Sapienza" (Sophia) e "Ridente" (Ghelasinos) perché rideva della vacuità degli uomini") richiamino da vicino la conclusione della testimonianza di Filone su Pirrone che abbiamo citato all'inizio; e ancora notevole è il fatto che Sesto Empirico (Adv. math. I 271-2; 281-2 = T. 21) ci dica che Pirrone leggeva in modo sistematico le opere di Omero, "quasi stesse ascoltando delle rappresentazioni comiche".

Anche i Silli di Timone, almeno in certa misura, contenevano una rappresentazione dei filosofi ricca di venature comiche, influenzata non solo dal cinismo ma anche certamente dalla commedia antica, ed ispirata felicemente alla visione pirroniana della vita (se ne veda l'edizione, con traduzione e commento, a cura di M. Di Marco, Roma 1989).

A questo punto, assume anche nuovo significato il fatto che proprio in un'epistola pseudo ippocratica (68 C 5 D.-K.) ritroviamo l'unica altra occorrenza del termine che dava il titolo al poemetto che Timone aveva composto per onorare il suo maestro: gli Indalmoi.

Rembrandt, Autoritratto in veste di Democrito

Sembra dunque lecito concludere che la creazione del Democritus ridens non poggi tanto sullo scritto di Democrito Sulla tranquillità dell'anima o in genere sui suoi aforismi etici, quanto su una lettura dei principi generali della sua filosofia in chiave pessimistica, volta appunto ad accentuare la totale svalutazione delle cose: rispetto a tale interpretazione, la fisica democritea non solo non viene sentita come elemento di disturbo (né tanto meno come rassicurante scoperta scientifica), ma piuttosto come intuizione precorritrice - e ciò poteva verificarsi se la si intendeva in chiave metaforica o 'mitica', come appunto sembra fare Timone nei Silli .

Prima di concludere, è possibile aggiungere qualche cosa sul momento o sull'autore che portò l'immagine del Democritus ridens a fissarsi in un vero e proprio topos? Se i due versi di Timone su Democrito a noi giunti non fossero gli unici dei Silli, e costituissero solo una rapida presentazione dei contendenti, si potrebbe formulare l'ipotesi che altrove Timone tornasse a parlare dell'Abderita e gli attribuisse i soprannomi che leggiamo in Suida: ma è strano che, se così fosse, Diogene Laerzio non ne faccia cenno. Personalmente, ritengo assai più fondata l'ipotesi che all'origine della storia si debba scorgere il cinico Menippo di Gadara, tanto più se si tiene conto di un dato che viene per lo più trascurato, cioè che egli aveva familiarità con i dibattiti scettici della prima metà del III secolo: sappiamo che scrisse un'opera intitolata Arcesilao e una Contro i fisici, i matematici, i grammatici che richiama titolature di scritti pirroniani (a partire da quelli di Timone). Forse non è azzardato pensare che il Democritus ridens, personaggio di un'opera di Menippo, forse la celebre Nekuia (Discesa nel mondo dei morti), passasse alla cultura romana tramite le Satire menippee di Varrone.

Si è spesso rilevato come l'antiteleologismo di Democrito fosse apprezzato, in polemica con la tradizione platonica, aristotelica e stoica, dai Cinici, dai Cirenaici e dagli Epicurei. Se il quadro che ho illustrato risulterà convincente, sarà necessario includere nella storia delle interpretazioni di Democrito anche un'altra opposizione fondamentale: l'interpretazione dell'atomismo democriteo come una teoria scientifica da una parte (è la via di Peripatetici ed Epicurei) e l'interpretazione antiscientifica, pessimista, tendente al più radicale scetticismo, di Pirroniani e Cinici. Il ruolo svolto dal primo pirronismo sembra essere stato, in questa vicenda, assai più importante di quanto non si supponesse. Nostro scopo non è ora discutere il valore storico dell'interpretazione antiscientifica di Democrito: ma grazie ad essa, io credo, la relazione tra Pirrone e Democrito assume un significato nuovo e getta luce sulla genesi di un'immagine famosa.

(Il contenuto di questo saggio è stato presentato per la prima volta in occasione del "First International Congress on Democritus", Xanthi 6-9 ott. 1983, quindi pubblicato in "Elenchos" 1984, pp. 3-21, che ringrazio per l'autorizzazione a riprodurne ora una versione modificata).

Fernanda Decleva Caizzi


Torna a inizio pagina

Vai a Spazio filosofico

Torna a Immagini per la filosofia

Vai a Immagini per Eraclito e Democrito