Paolo Spinicci |
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Il mondo della vita e il problema della certezza Lezioni su Husserl e Wittgenstein |
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Lezione diciassettesima |
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Il primo passo che possiamo compiere per cercare di dare alle considerazioni che stiamo proponendo una maggior chiarezza non consiste ancora nel disporsi sul terreno delle certezze del senso comune, ma nel richiamare l'attenzione sulla dimensione della temporalità e quindi sul processo in cui determinate asserzioni ritenute vere vengono trasformate in postulati e così sottratte al vaglio della critica. In altri termini, Wittgenstein ci invita in primo luogo a riflettere sulla dinamica che giustifica il duplice uso di determinate proposizioni - il loro originario porsi come asserzioni, per divenire poi regole del gioco. Questa dinamica è innanzitutto caratterizzata da un processo, in linea di principio reversibile, di consolidamento di alcune proposizioni che tendono a disporsi in uno spazio protetto dal dubbio: Ci si potrebbe immaginare che certe proposizioni che hanno forma di proposizioni empiriche vengano irrigidite e funzionino come una rotaia per le proposizioni empiriche non rigide, fluide; e che questo rapporto cambi col tempo, in quanto le proposizioni fluide si solidificano e le proposizioni rigide diventano fluide (ivi, § 96). Alcune cose ci sembrano saldamente acquisite, e hanno cessato di far parte del traffico. Per così dire, sono state deviate su un binario morto (ivi, § 210). Il senso di queste osservazioni è relativamente chiaro, e ci invita innanzitutto a riflettere nuovamente sulla struttura sistematica delle nostre credenze, sul loro porsi come un insieme articolato in cui ad ogni singola proposizione è attribuito un posto determinato ed una funzione logica peculiare - proprio come mostra lo schema che abbiamo dianzi proposto. E tuttavia sottolineare il carattere sistematico delle nostre credenze non significa solo indicare staticamente la presenza di un insieme di nessi di fondazione che legano le conoscenze complesse alle conoscenze più semplici e che radicano queste ultime nelle certezze che danno forma al gioco linguistico, ma significa anche disporsi in una prospettiva dinamica, in una dimensione euristica che richiami innanzitutto la nostra attenzione sul fatto che le nostre credenze costituiscono un sistema in cui le proposizioni si illuminano vicendevolmente. Wittgenstein scrive così: Il bambino impara a credere un sacco di cose. Cioè impara, per esempio, ad agire secondo questa credenza. Poco alla volta, con quello che crede si costruisce un sistema e in questo sistema alcune cose sono ferme e incrollabili, altre sono più o meno mobili. Quello che è stabile non è stabile perché sia in sé chiaro o di per sé evidente, ma perché è mantenuto tale da ciò che gli sta intorno (ivi, § 144). Quando cominciamo a credere a qualcosa, crediamo non già a una proposizione singola, ma a un intero sistema di proposizioni (Sulla totalità la luce si leva poco a poco) (ivi, § 141). La luce si leva poco a poco - questo è il punto. Una proposizione è vera se può essere verificata; la possibilità di verificarla, tuttavia, implica il rimando ad una molteplicità di criteri di prova, la cui affidabilità si corrobora quanto più essi danno buona prova di sé quando li impieghiamo: ne segue che il farsi strada di una nuova credenza implica insieme un consolidamento delle premesse su cui il tutto si fonda. Lentamente, da ciò che il bambino ha imparato a credere, si forma un sistema in cui alcune convinzioni si fanno inamovibili, proprio come immobile è l'asse di rotazione di una trottola - a tenerlo fermo non è una sua intrinseca stabilità, ma tutto ciò che intorno ad esso ruota. "Non i singoli assiomi mi paiono evidenti, ma un sistema in cui le premesse e le conseguenze si sostengono reciprocamente (ivi, § 142), - e tuttavia ciò non significa che le proposizioni empiriche si dispongano tutte sullo stesso piano (ivi, § 213); tutt'altro: la natura sistematica delle nostre credenze fa sì che ciò che funge da premessa acquisti gradatamente una funzione nuova. Certe proposizioni empiriche vengono "semplicemente sottratte al dubbio" (ivi, § 87), e ciò è quanto dire che non vengono più intese come proposizioni, che appartengano a pieno titolo al terreno della ricerca. Sulla loro verità o falsità non ci si interroga più, poiché ci appaiono ormai definitivamente assodate, e ciò significa che non saremmo pronti ad accettare per vera un'esperienza che le falsificasse. Ma liberare dalla possibilità del dubbio una proposizione non significa soltanto renderla definitivamente certa; vuol dire anche attribuirle una nuova funzione, poiché le proposizioni che nel tempo si irrigidiscono e divengono insensibili alla correzione e al cambiamento diventano i binari della ricerca e quindi anche le ipotesi interpretative che la sorreggono. Così, ciò che da principio è una proposizione empirica che pretende di essere sempre di nuovo accertata diviene, e proprio in virtù delle conseguenze che ne derivano, una regola del gioco che si sottrae al corso delle ulteriori verificazioni. La struttura sistematica e insieme gerarchica del sapere determina così il movimento che trasforma proposizioni empiriche in certezze, in postulati. L'essenza, diceva Aristotele, è ciò che era essere, e di questo rimando alle origini della riflessione filosofica possiamo in un certo senso avvalerci per venire a capo di ciò che per Wittgenstein svolge la funzione logica del fondamento: ciò che esercita la funzione di fondamento era, un tempo, una proposizione empirica che, in virtù della sua appartenenza ad un sistema, si è via via sottratta all'esercizio della critica, fino a porsi come una regola del gioco. Del resto, se ci disponiamo sul terreno delle citazioni è perché anche Wittgenstein si avventura in un'immagine che va chiarita e che è essa stessa ricca di risonanze arcaiche: Le proposizioni che descrivono l'immagine del mondo - si legge in Della certezza - potrebbero appartenere a una specie di mitologia. E la loro funzione è simile alla funzione delle regole del gioco (ivi, § 95). Ora, cercare di venire a capo di questa strana tesi significa innanzitutto rammentarsi quale sia la natura dei miti e nei miti, di fatto, si raccontano storie; si raccontano per esempio le gesta degli dei e degli eroi che hanno dato origine al cosmo, sconfiggendo il caos primordiale e delineando l'ordine cui gli eventi debbono assoggettarsi. Sottolineare la natura narrativa del mito non significa tuttavia dimenticare che il mito non è una narrazione qualsiasi; il mito, che narra un evento avvenuto in illo tempore, è insieme anche espressione e delineazione di un modello che deve aiutare a comprendere il presente. Se nel mito si narra la lotta degli dei e degli eroi per sancire il cosmo sul caos è perché nel presente non è affatto esclusa la possibilità del ripetersi della minaccia del disordine e del suo tentativo di imporsi all'ordine del cosmo. La narrazione del mito si pone così come un'interpretazione del presente e una garanzia per il futuro che ha il suo unico fondamento nella sua assimilazione di ciò che accade ad un evento passato. Un fatto accaduto in illo tempore deve così divenire la regola per pensare il presente, per intenderlo alla luce di un sistema di riferimento che ne garantisca la sensatezza e insieme anche il buon esito. Nel pensiero mitico, scrive Eliade, un oggetto o un atto diventa reale soltanto nella misura n cui imita o ripete un archetipo. Così, la realtà si acquista esclusivamente in virtù di ripetizione o di partecipazione; tutto quello che non ha un modello esemplare è "privo di senso", cioè manca di realtà. Gli uomini avrebbero quindi tendenza a divenire archetipici e paradigmatici (Il mito dell'eterno ritorno, Borla, Torino 1968, p. 55). Di qui una delle ragioni che spingono Wittgenstein ad avvalersi di quest'immagine così suggestiva: ciò che dapprima è una proposizione empirica diviene poi un postulato, proprio come le gesta antiche dell'eroe divengono con il passare del tempo un modello e un paradigma cui ricondurre il presente. E tuttavia sarebbe un errore non sottolineare come in quell'immagine si faccia avanti una nuova inclinazione di senso. Sinora abbiamo sottolineato il carattere sistematico del sapere, e di fatto il terreno cui abbiamo vincolato le nostre indagini è il terreno proprio della strutturazione delle teorie: abbiamo parlato di postulati e di assiomi ed abbiamo osservato come le nostre credenze si strutturino come un sistema, in cui le conseguenze e le premesse si sostengono reciprocamente (Della certezza, op. cit., § 142). Ma non sempre le cose stanno così, ed anche in questo caso la tesi secondo la quale le proposizioni che descrivono l'immagine del mondo potrebbero appartenere a una specie di mitologia ci invita a riflettere. Una mitologia ha sicuramente i tratti propri del sistema: si parla di mitologia proprio per sottolineare come le narrazioni mitiche di un popolo e di una cultura si organizzino in un tutto coerente, in un Olimpo in cui gli dei si suddividono i compiti e si assegnano i ruoli. E tuttavia se di un sistema si può parlare è solo perché allarghiamo le maglie di ciò che usualmente intendiamo con questa nozione. Nella mitologia, per gli dei e per gli eroi vi sono ruoli e compiti definiti, ma questo certo non toglie che possano crearsi conflitti di attribuzione, e che ciò che un mito narra sia smentito da ciò che altri miti raccontano. Così, alcuni miti assicurano che Eros è il più antico degli dei, mentre altri raccontano che Afrodite ne sia la madre; quanto al padre si può scegliere: Ermes, Ares, Zeus, e il Vento dell'ovest sono sull'elenco degli indiziati. Se dunque il sistema delle credenze che determinano la nostra immagine del mondo può essere paragonato ad una specie di mitologia, ciò significa che della parola "sistema" non si può pretendere di fare sempre un uso rigoroso. Di qui la conclusione che Wittgenstein ci invita a trarre: indagare i presupposti che fanno da fondamento alle nostre credenze non significa solo osservare che ogni teoria poggia su un insieme di tesi paradigmatiche che fungono da criterio di interpretazione degli eventi, ma vuol dire anche riflettere sul fatto che le nostre credenze poggiano su un insieme più o meno ordinato di credenze. Il sistema assiomatico delle credenze (ivi, § 142) può in altri termini assumere anche la forma di un nido di proposizioni (ivi, § 225), e i postulati nella loro rigida determinatezza possono presentarsi nella veste assai meno definita di immagini, di pensieri intuitivi che è difficile ancorare ad una definizione esplicita: della Terra ci facciamo l'immagine di una palla che è sospesa liberamente nell'aria, e in cent'anni non sottostà a elementi sostanziali [...] e questa immagine ci aiuta a valutare diversi e svariati stati di cose (ivi, §146) L'immagine della Terra come di una palla è una buona immagine, dà buona prova di sé ovunque, ed è anche un'immagine semplice; - in breve, lavoriamo con quest'immagine senza metterla in dubbio (ivi, § 147). La differenza è chiara. Qui non parliamo più di una proposizione che si è consolidata e che ora trattiamo come un postulato; al suo posto Wittgenstein ci propone appunto un'immagine, - ed un'immagine è innanzitutto un certo modo di pensare, un sistema implicito di proposizioni che debbono essere pienamente condivise o condivisibili se si vuole che l'immagine sia per noi persuasiva, ma che non sono necessariamente connesse le une alle altre in modo rigoroso. Alla diversità della forma fa tuttavia eco l'identità della funzione: l'immagine che sorge per decantazione dall'attività di ricerca diviene a sua volta uno strumento che ci consente di lavorare, poiché orienta in una direzione peculiare la ricerca e mette da parte come inaccettabili determinate obiezioni: se sappiamo che la Terra è rotonda e ce ne dichiariamo definitivamente convinti, possiamo tranquillamente disinteressarci del verdetto degli occhi che quotidianamente ne mostrano piana la superficie, per chiederci poi il perché una sfera - la Terra - debba apparire proprio in questo modo a chi l'osserva dal nostro punto di vista. Per dirla in breve: poiché per noi la Terra è rotonda, dobbiamo spiegare perché solitamente non riusciamo a vederla così. A partire di qui non è difficile scorgere quale sia la ragione che spinge Wittgenstein a riflettere sulla somiglianza che lega il sapere ad una decisione ormai presa (ivi, § 362). Talvolta dire che sappiamo qualcosa non significa soltanto che abbiamo argomenti per sostenerla; vuol dire invece che abbiamo deciso di farne un punto fermo, almeno sino a quando qualcosa non ci costringerà a mutare il nostro punto di vista. Del resto, anche in questo l'analogia tiene: una decisione può essere presa ma può essere anche revocata, proprio come accade ad un paradigma scientifico quando la sua capacità di persuaderci entra in crisi. Parlare di decisione, tuttavia, non deve indurci ad un possibile fraintendimento. Chi vive all'interno della nostra cultura non decide di punto in bianco di ritenersi pienamente convinto del fatto che la Terra è rotonda. Il peso che a questa proposizione spetta nel contesto della riflessione astronomica e geografica non è frutto di una decisione soggettiva, ma deriva direttamente dal fatto che apparteniamo ad una comunità, e che le comunità dipendono da una tradizione. Se ci lasciamo guidare da quest'immagine è perché siamo stati educati a condividere molte certezze, non ultima quella che lentamente sopisce nel bambino le preoccupazioni per la posizione rischiosa cui sono costretti gli sfortunati abitanti dell'emisfero australe: che noi siamo perfettamente sicuri di questa cosa, non vuol dire soltanto che ciascun individuo è sicuro di quella cosa, ma che apparteniamo a una comunità che è tenuta insieme dalla scienza e dall'educazione (ivi, § 298) . Io credo a quello che gli uomini mi trasmettono in una certa maniera. Così credo a dati di fatto geografici, chimici, storici.. Così imparo le scienze. Naturalmente l'imparare poggia sul credere. Chi ha imparato che il monte Bianco è alto 4000 metri, proprio come chi è andato a controllarlo sulla carta geografica, bene quello dice di saperlo (ivi, § 170). Ora, che le cose stiano così è in un certo senso ovvio, e tuttavia ancora una volta dobbiamo necessariamente complicare il quadro, e complicarlo per gradi. Ci lasciamo guidare dall'immagine della sfericità della Terra perché apparteniamo ad una cultura che è "tenuta insieme dalla scienza e dall'educazione", e questo rimando è importante poiché ci invita a riflettere in modo più attento sul fatto che certe credenze implicano l'acquisizione di una certa mentalità. Noi non possiamo credere che una danza faccia piovere e ci sentiremmo spiritualmente lontani da chi lo credesse (ivi, § 108), proprio come non siamo più in grado di condividere le preoccupazioni del bambino per gli uomini dell'altro emisfero. Ecco, l'immagine della sfericità della Terra è un'immagine che ha dato buona prova di sé e che ci permette di comprendere bene il sorgere e il tramontare del sole, ma è insieme anche un'immagine che implica che si sia comunque già messa da parte una concezione ingenua della gravità e che le direzioni dell'alto e del basso abbiano già imparato a configurarsi in una prospettiva che ha rescisso i ponti con la quotidianità. Perché quell'immagine possa guidarci deve, in altri termini, poter trovare il suo posto nel nido di proposizioni che sono per noi certe. Ora, dall'immagine della sfericità della Terra ci lasciamo guidare perché apparteniamo ad una cultura che accetta di modellare l'immagine del mondo sulla base del ragionamento scientifico, e tuttavia non sempre le immagini che orientano la nostra conoscenza hanno il loro fondamento in intuizioni di carattere scientifico. Per rendersene conto è sufficiente variare l'immagine da cui abbiamo preso le mosse, per sostituirla con un pensiero intuitivo che appartiene ad una dimensione più originaria della nostra esperienza - il pensiero della sostanza come pensiero che accompagna la nostra certezza che i corpi tendono a reagire nello stesso modo alle stesse modificazioni: pensa alle ricerche chimiche. Nel suo laboratorio Lavoisier fa esperimenti con certe sostanze e poi conclude che nella combustione succede questa e quell'altra cosa. Non dice che un'altra volta le cose potrebbero andare diversamente. Afferra una determinata immagine del mondo: un'immagine del mondo che naturalmente non ha inventato lui, ma che ha imparato da bambino. Dico immagine del mondo e non ipotesi perché è il fondamento ovvio della sua ricerca e quindi, come tale, non viene neppure esplicitata (ivi, § 167). Qui siamo ancora di fronte ad un presupposto della ricerca, ed in particolar modo della ricerca scientifica. Ed anche in questo caso Wittgenstein ci invita a riflettere sulla funzione che l'apprendimento ha nel predelineare l'immagine che sorregge Lavoisier nel suo gettare le basi della chimica. Ma questa volta qualcosa è cambiato: se infatti dobbiamo pensare di avere appreso che la Terra è davvero simile ad una palla sospesa nel cielo e se rammentiamo bene quali e quante resistenze siano state vinte perché quell'immagine del mondo avesse ragione delle tante cosmogonie che ci invitavano a pensare al pianeta come ad una superficie piana circondata dalle acque, diversamente stanno le cose nel caso di questa nuova immagine, poiché non ci è mai stato insegnato che la natura è costante e che il modo in cui la sostanza A reagisce ora alla sostanza B si ripeterà anche in futuro. Qui non abbiamo a che fare con un'ipotesi - con una proposizione empirica che si irrigidisce sino ad assumere la forma di una regola del gioco, ma - scrive Wittgenstein - con un'immagine del mondo che abbiamo appreso sin da bambini e che anche se è stata di fatto formulata nel corso della storia della scienza sembra essere comunque operante anche sul terreno prescientifico. Su questa differenza è opportuno indugiare un poco. È innanzitutto opportuno ribadire che in questo caso non parliamo di ipotesi (di postulati), ma nemmeno soltanto di un'immagine; il discorso si è fatto più ampio: ora parliamo senz'altro di un'immagine del mondo, e ciò significa innanzitutto osservare che abbiamo a che fare con "lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso" (ivi, § 94). Ora, se di uno sfondo si può parlare è perché quando ci lasciamo convincere dalla verità di qualcosa siamo già certi di molte altre cose, che sono implicate dalla nostra prassi e che sorreggono i nostri giochi linguistici. Ma ciò è quanto dire che vi sono certezze che non hanno la forma di proposizioni e che non si apprendono come si apprende un contenuto di giudizio. L'immagine da cui Lavoisier si lascia guidare non gli è stata insegnata come si insegna una proposizione empirica, poiché è una certezza che vive già nella prassi, ed è in quella prassi che la si apprende. Così, all'apprendimento come risultato di un'educazione scientificamente atteggiata dobbiamo affiancare ciò che il bambino impara vivendo, dove la parola "impara" non ha più per oggetto un sapere: Per esempio, mi raccontano che molti anni fa un tizio ha scalato questa montagna. Cerco sempre di determinare l'affidabilità del narratore e se questa montagna esistesse già da molti anni? Un bambino impara che ci sono narratori degni di fede e narratori che di fede non sono degni molto dopo aver imparato i fatti che gli vengono raccontati. Non impara affatto che quella montagna esisteva già molto tempo fa; cioè, la domanda se così sia non gli viene affatto in mente. Per così dire, inghiotte questa conseguenza insieme con quello che impara (ivi, § 143). Ancora una volta qui non ci troviamo di fronte ad un rimando esplicito a proposizioni empiriche ritenute vere e poi elevate al rango di regole del gioco. Il bambino non impara affatto che la montagna esisteva già molti e molti anni fa, e mai nessuno si impegna ad insegnare simili ovvietà: il bambino le apprende perché apprende altre cose, le comprende perché impara a dare un limite alle proprie domande e occupando lo spazio del sapere si appropria della regola che lo circoscrive. Anche in questo senso è dunque lecito parlare di sfondo: ciò su cui si staglia l'insieme di ciò che riteniamo vero o falso definisce implicitamente il fondamento su cui poggia. Le nostre indubitabili certezze sono un presupposto che sappiamo individuare solo perché le nostre credenze vi ruotano attorno: Le proposizioni che per me sono incontestabili non le imparo esplicitamente. Posso forse trovarle in seguito, così come si trova l'asse di rotazione di un corpo rotante. Quest'asse non è stabile nel senso che sia mantenuto stabile, ma nel senso che è il movimento intorno ad esso a determinarne l'immobilità (ivi, § 152). E se non è possibile dire che le certezze che mi animano sono oggetto di un vero e proprio insegnamento, allora si deve anche riconoscere che appartiene alla loro stessa natura il porsi come uno sfondo per cui non abbiamo ragioni. Non sempre le certezze si imparano, e questo vuol dire che si impossessano di noi senza che sia possibile indicare il cammino che ad esse ci ha condotto e che dovrebbe renderle persuasive. Lo abbiamo osservato poc'anzi: ciò che impariamo non è in questo caso un sapere, e questo proprio perché ha fin da principio la forma dello sfondo, di ciò che è dato solo come presupposto ovvio di un'infinità di altre cose: Ma la mia immagine del mondo non l'ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso (ivi, § 94). E se ora dicessi: "è mia incrollabile convinzione che..." anche nel nostro caso questo significa che alla convinzione non sono arrivato consapevolmente, attraverso giri di pensiero ben definiti, ma che essa è ancorata in tutte le mie domande e in tutte le mie risposte, in modo tale che non posso toccarla (ivi, § 103). Non è difficile, io credo, scorgere in queste considerazioni un'eco delle riflessioni di Moore, e forse non sarebbe inopportuno ricordarsi esplicitamente di ciò che si legge nella Difesa del senso comune quando si osserva che vi sono proposizioni che sappiamo, anche se non possiamo dire quale sia il fondamento del nostro saperle. Eppure, anche in questo caso il momento dell'analogia deve cedere il passo alla constatazione della differenza. Per Moore possiamo davvero redigere un elenco di proposizioni e dire: questo è ciò che io so - il senso comune è appunto un sapere comune, un bagaglio per tutti disponibile di cognizioni elementari. Per Wittgenstein le cose stanno diversamente. Qui non si parla affatto di un sapere comune cui potremmo attingere per trarre di qui le regole dei nostri giochi linguistici. Si dice soltanto questo: che i nostri giochi linguistici debbono pur cominciare, e che non possono che cominciare così - dando molte cose per scontate. |
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