Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione quattordicesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Considerazioni introduttive

 

 

 

 

 

Nella precedente lezione ho cercato di far luce su alcuni saggi di Moore cui Wittgenstein fa più volte riferimento ed ora vorrei addentarmi senz'altro nelle riflessioni che la Anscombe e von Wright hanno pubblicato raccogliendole sotto il titolo di Della certezza. Vorrei, ma forse è opportuno procedere con qualche cautela, poiché queste brevi osservazioni che si legano tematicamente le une alle altre possono creare più di un problema a chi non conosca lo stile letterario e filosofico di Wittgenstein.

Una prima impressione deve essere innanzitutto fugata: sappiamo che Wittgenstein non ha avuto il tempo di rileggere e di correggere i pensieri che sono raccolti in queste pagine, e almeno in un punto la consapevolezza che il tempo non sarebbe bastato per venire pienamente a capo dei problemi discussi e della loro esposizione si fa manifesta:

Qui vi è ancora una grossa lacuna nei miei pensieri. E dubito che verrà mai colmata (5 aprile 1951) (Della certezza, op. cit., p. 76)

E tuttavia, anche se Über Gewissheit è un'opera incompiuta e se il suo autore non ha avuto il tempo per rivederla, non si deve per questo credere che la sua forma letteraria dipenda dalla vicenda biografica del suo autore: le opere di Wittgenstein sono tutte scritte così - brevi pensieri, racchiusi in una forma linguistica molto meditata, che costringe il lettore a riflettere a lungo per cogliere analiticamente una tesi che appare racchiusa in poche parole. In questa forma linguistica ci imbattiamo del resto già nella prima opera di Wittgenstein: il Tractatus logico-philosophicus pubblicato nel 1921, ma terminato qualche anno prima, quando Wittgenstein era prigioniero di guerra a Cassino. Certo, in quest'opera la scansione in brevi periodi sembra essere innanzitutto motivata dall'esigenza di dare alle argomentazioni un andamento dimostrativo, secondo un'inclinazione stilistica che rammenta l'Ethica more geometrico demonstrata di Spinoza, cui in qualche misura si allude fin nel titolo dell'opera (che si deve peraltro a Moore). Quest'impressione si impone necessariamente al lettore: il Tractatus è una successione di pensieri, che Wittgenstein dispone secondo il loro ordine argomentativo e secondo il loro peso logico: per ogni proposizione vi è infatti un numero che ci permette di chiarire quale posto essa occupi nella gerarchia del sistema e nello sviluppo logico dell'argomentazione. Avremo così da un lato le proposizioni principali contrassegnate da un numero intero, poi le proposizioni che fungono da commento ad una proposizione principale e che saranno quindi contrassegnate da quel numero e da un decimale; poi le proposizioni che dipendono direttamente da queste ultime e che saranno contrassegnate dai primi due numeri e da un centesimale, e così di seguito. L'idea che funge da guida è ben chiara: si deve poter ordinare i pensieri secondo un albero logico i cui rami centrali (sei nel Tractatus) si articolano a loro volta in rami secondari, seguendo un processo che conduce sino alle ultime diramazioni del tema proposto.

E tuttavia, la forma logica della successione non deve farci trarre conclusioni troppo affrettate, poiché le proposizioni del Tractatus non hanno la forma di teoremi, ma di massime che debbono essere comprese in se stesse e ripercorse secondo un ordine che è indicato, ma che non si dipana nella forma consueta del libro. Certo l'autore del Tractatus è convinto che dell'idea del libro si possa salvare almeno l'indice - quell'indice che si fa garante della possibilità di indicare un percorso univoco nel pensiero. Ma ciò non toglie che il lettore sia di fatto costretto ad una lettura che non può essere separata dallo sforzo di ripensare da capo i pensieri che vengono espressi e che sono consegnati in formule di estremo nitore che tuttavia nulla concedono a chi voglia essere guidato passo per passo sino al senso che loro spetta. Wittgenstein, del resto, lo dice con chiarezza nelle poche righe che premette al Tractatus:

Comprenderà questo libro, forse, solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi - o almeno pensieri simili. Esso dunque non è un manuale [Lehrbuch] (Tractatus logico-philosophicus, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino, 1964, p. 3)

Il rifiuto della forma tradizionale del libro doveva divenire ancora più esplicito con il passare degli anni, e così se prendiamo tra le mani l'unico altro testo che Wittgenstein aveva preparato per la pubblicazione - le Ricerche filosofiche - ci imbattiamo in una raccolta di pensieri che seguono un cammino intricato e che ci sembrano ora puntare direttamente a uno scopo, ora ritornare sui propri passi, per affrontare secondo una prospettiva diversa e inattesa problemi che credevamo di aver già risolto e che ci eravamo lasciati alle spalle. Wittgenstein descrive così la genesi del suo libro:

Dopo diversi tentativi di riunire in un tutto secondo una successione naturale e continua i risultati cui ero pervenuto, mi accorsi che la cosa non mi sarebbe mai riuscita, e che il meglio che potessi scrivere sarebbe sempre rimasto soltanto allo stato di osservazioni filosofiche; che non appena tentavo di costringere i miei pensieri in una direzione facendo violenza alla loro naturale inclinazione, subito questi si deformavano. - E ciò dipendeva senza dubbio dalla natura stessa della ricerca, che ci costringe a percorrere una vasta regione di pensiero in lungo e in largo e in tutte le direzioni. - Le osservazioni filosofiche contenute in questo libro sono, per così dire, una raccolta di schizzi paesistici, nati da queste lunghe e complicate scorribande (Ricerche filosofiche, op. cit., p. 3).

Ora anche l'indice ci viene sottratto, o almeno: assume la forma impalpabile di una traccia che si deve ritrovare nel succedersi di continue digressioni: il percorso univoco che la scansione numerica delle proposizioni del Tractatus ci proponeva si è trasformato così nelle "scorribande" delle Ricerche filosofiche. E ciò è quanto dire che il lettore non può davvero aspettarsi di essere condotto per mano dalle pagine che legge:

Non vorrei con questo mio scritto, risparmiare ad altri la fatica di pensare; ma, se fosse possibile, stimolare qualcuno a pensare da sé (ivi, p. 5).

Non vi è dubbio che le cose stiano così anche nelle pagine di Della certezza che, come di consueto, ci propone una serie di pensieri che ritornano di continuo gli stessi temi, affrontandoli secondo prospettive diverse e, per così dire, auscultando le diverse reazioni che uno stesso tema manifesta quando cerchiamo di esporlo in una forma differente o in un differente contesto. Ed anche in questo caso al lettore si chiede di farsi filosofo e di affrontare la lettura, senza per questo abdicare al compito di una riflessione autonoma:

io credo che il leggere queste mie annotazioni potrebbe interessare un filosofo: un filosofo che sappia pensare da sé. Infatti, anche se raramente ho colto il bersaglio, lui potrebbe tuttavia riconoscere a quale bersaglio io abbia incessantemente continuato a mirare (Della certezza, op. cit., § 387).

Ora, si potrebbe forse osservare che la metafora è mutata: non più scorribande, ma il continuo tentativo di prendere la mira su un bersaglio che non si è sicuri di avere pienamente colto, ed in questo mutato accento si può avvertire un'eco della vicenda stessa dell'opera, - del suo essere stata scritta avendo ormai poco tempo a disposizione. E tuttavia la conclusione che si trae è la stessa: il lettore è ancora una volta invitato ad una riflessione autonoma, poiché il testo non offre che le pietre miliari di un cammino che deve essere autonomamente percorso.

Di una simile scelta stilistica dobbiamo chiederci le ragioni. E ciò significa innanzitutto rammentarsi del fatto che la filosofia non è - per Wittgenstein - una dottrina come le altre, ma un'attività di chiarificazione concettuale: il filosofo non insegna nulla, non espone un sapere, ma cerca di restituire ai concetti la loro chiarezza, districando i diversi usi linguistici e dissipando i molteplici fraintendimenti che ci impediscono talvolta di orientarci nel nostro universo concettuale:

Un problema filosofico ha la forma: "Non mi ci raccapezzo (Ricerche filosofiche, op. cit., § 123).

Una volta tanto è opportuno usare l'espressione tedesca. Wittgenstein scrive "Ich kenne mich nicht aus", ed in quest'espressione è innanzitutto implicita l'idea dell'essersi smarriti. Sich auskennen vuol dire proprio questo: sapersi muovere bene in uno spazio in qualche modo complesso - in una città, per esempio. Siamo in un intrico di viottoli e sappiamo tuttavia venirne fuori, perché appunto sappiamo muoverci bene in uno spazio che ci è familiare. Ma ad un tratto potremmo perdere l'orientamento; e l'intrico di strade potrebbe apparirci come un labirinto da cui è difficile uscire. Le difficoltà filosofiche sono, alla lettera, aporie, un termine greco che designa le difficoltà eminentemente filosofiche alla luce di una metafora - il pensiero si fa aporetico quando non c'è via d'uscita. Di qui il compito della filosofia:

Qual è il tuo scopo in filosofia? - Indicare alla mosca la via d'uscita dalla trappola (ivi, § 309).

La filosofia deve indicare la via d'uscita a ciascuno di noi, ma uscire è compito nostro: il filosofo deve dunque necessariamente costringere il lettore ad una riflessione autonoma, e questo proprio perché nel caso della riflessione filosofica non vi è un risultato conoscitivo da raggiungere ma solo un percorso da compiere. Così, se la forma del manuale non si addice alla riflessione filosofica è perché la filosofia non ha tesi da esporre, ma percorsi da suggerire.

Ma queste prime considerazioni non bastano ancora per rendere conto della forma dei testi di Wittgenstein che dipende strettamente da quella che egli ritiene essere la natura e l'origine dei problemi filosofici. E i problemi filosofici sorgono quando la forma del nostro linguaggio e le immagini che sono in esso racchiuse ci spingono a fraintenderne il senso:

[i problemi filosofici] non sono, naturalmente, problemi empirici, ma problemi che si risolvono penetrando l'operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto. La filosofia è una battaglia contro l'incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio (ivi, § 109).

Di qui la necessità di dare alla filosofia un persuasivo e talvolta dialogico, che cerchi di snidare le resistenze che ci impediscono di abbandonare le nostre false convinzioni. Se si devono moltiplicare gli esempi e se si deve ritornare più volte su uno stesso tema è anche perché si deve cercare di aggredire le difficoltà da più parti, per trovare infine il lato da cui è più facile penetrare per dissolvere "l'incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio". Ma ciò è quanto dire che il filosofo non deve limitarsi a districare le questioni che gli vengono proposte, ma è costretto anche a cercare la via per rendere accettabile la medicina che propone:

Il filosofo tratta una questione; come una malattia (ivi, § 255).

E tuttavia, se Wittgenstein ritorna sempre di nuovo sugli stessi problemi, variando gli esempi e mutando le prospettive di indagine non è solo perché l'indagine filosofica ha una funzione terapeutica: è anche perché una chiarificazione concettuale è possibile solo se si riesce a rendere conto della grammatica di un concetto nel contesto delle grammatiche dei concetti ad esso affini. Così, venire a capo del significato del gioco linguistico che giochiamo con la parola "sapere" vuol dire dapprima discernere gli usi di questo termine che concernono il problema che ci sta a cuore - non ogni uso linguistico è filosoficamente interessante - per poi distinguerli dai giochi linguistici affini: il sapere si chiarisce nel suo senso solo sullo sfondo delle regole d'uso che sorreggono il nostro impiego di termini come "credere", "dubitare", "essere certi", e così via. Infine, la possibilità di indicare le regole che vincolano il gioco linguistico cui giochiamo dicendo "io so che..." costringe il filosofo a saggiare, per così dire, i limiti di quell'uso, indicando insieme le molte strade che ci conducono dal senso al non senso - quelle strade che abbiamo percorso e che ci hanno costretto ad immergere nella riflessione filosofica. In un passo delle Ricerche filosofiche Wittgenstein scrive che il compito della filosofia consiste talvolta nel trasformare un non senso nascosto in un'assurdità palese, ed il senso di questa osservazione non può ora sfuggirci: se vogliamo davvero comprendere la grammatica che sorregge l'uso di un determinato concetto, dobbiamo per così dire mostrare il non senso che deriva dai fraintendimenti nell'uso - quel non senso che circonda e delimita ciò che è conforme alla regola. Di qui un altro tratto dello stile di Wittgenstein - quell'umorismo filosofico che caratterizza molte delle sue riflessioni e che ci presenta con apparente serietà delle piccole scene la cui evidente insensatezza è insieme la parodia di un atteggiamento più generale che ci sembra filosoficamente appropriato:

Che io sia un uomo e non una donna può essere verificato, ma se io dicessi che sono una donna e poi cercassi di spiegare il mio errore dicendo che non ho verificato il mio asserto, la mia spiegazione non verrebbe tenuta in nessun conto (Della certezza, op. cit., § 79).

Dico con passione: "Io so che questo è un piede". Ma che significa? (ivi, § 379).

Siedo in giardino con un filosofo. Quello dice ripetute volte: "Io so che questo è un albero", e così dicendo indica un albero nelle nostre vicinanze. Poi qualcuno arriva e sente queste parole, e io gli dico: "Quest'uomo non è pazzo: stiamo solo facendo filosofia" (ivi, § 467).

Supponiamo che io fossi il medico, e un paziente venisse da me, mi mostrasse la sua mano, e dicesse: "Quella che sembra una mano, non è un'eccezionale imitazione di una mano, ma è effettivamente una mano", e poi parlasse della sua ferita. - La considererei come una vera e propria informazione, per quanto superflua? (ivi, § 461).

Potremo continuare questo elenco, ma ciò che ora ci interessa è piuttosto cercare di comprendere perché il filosofo - questa figura solitamente così austera - senta il bisogno di dare ai suoi pensieri un taglio umoristico. Questa domanda se la pone anche Wittgenstein:

Chiediamoci: perché una battuta di spirito grammaticale ci sembra profonda? (e questa è appunto la profondità filosofica). (Ricerche filosofiche, op. cit., § 111).

Chiediamocelo, appunto. Nell'epitaffio di un medico si legge: "Egli giace qui, come un eroe circondato dalle sue vittime" e noi ridiamo, perché questo epitaffio che sembra ricalcare un modello effettivamente percorribile si trova in un contesto che lo priva del suo significato consueto: per un medico non è un onore l'aver fatto strage dei propri pazienti. E non diversamente stanno le cose con le osservazioni di Wittgenstein che abbiamo dianzi citato: lo scienziato può fare dell'acribia con la quale controlla ogni suo asserto il vanto della sua serietà scientifica, ma a chi gli domanda se sia un uomo o una donna non può rispondere prendendosi il tempo necessario per una verifica, poiché qui l'acribia e il controllo empirico sono fuori luogo. Possiamo allora trarre una prima conclusione: spesso l'umorismo nasce proprio da qui - dal gesto che rende evidente lo scarto tra una proposizione o un comportamento apparentemente sensati e la loro pretesa applicazione ad una contesto concreto che li priva di ogni sensatezza. Questo gesto il filosofo deve compierlo spesso: se il linguaggio deve essere liberato dagli incantamenti del linguaggio allora si deve richiamare l'attenzione sul fatto che dietro una consueta veste linguistica e dietro ad un ragionamento che pretende di essere pienamente sensato, si cela un'assurdità che deve essere resa manifesta. L'umorismo filosofico diviene così un mezzo per mostrare alla mosca quale cammino non debba seguire.

 

 

 

 

 

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