Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione quinta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Ego e res cogitans

 

 

 

 

 

Il compito che ci siamo assunti nella lezione precedente ci costringe ora a ritornare sui nostri passi per soffermarci un poco sulla natura di ciò che Cartesio scopre e in cui crede di trovare il punto di appoggio su cui fondare la possibilità della conoscenza obiettiva. Una prima conclusione siamo già in grado di trarla: per Cartesio, ciò che sfugge all'epoché non è la sfera dell'esperienza, non è la totalità degli atti intenzionali e dei loro correlati oggettivi: la formula ego cogito - cogitata qua cogitata non è un buon titolo sotto cui raccogliere le considerazioni cartesiane. Husserl non si stanca di ripeterlo: l'argomento cartesiano del dubbio metodico non mira a prendere commiato da una falsa concezione dell'obiettività e non intende mostrare che il mondo e la totalità delle cose si costituiscono come realtà indipendenti dall'io soltanto nell'esperienza che ne abbiamo. Il suo obiettivo è un altro: Cartesio intende infatti mostrare l'indipendenza dell'io dal mondo, il suo essere una cosa cui abbiamo un accesso immediato e che in sé reca le tracce (le ideae, appunto) che altre cose hanno impresso in lei - quelle entità reali che non ci è dato conoscere immediatamente. L'io che esce indenne dal dubbio è dunque innanzitutto il residuo di una critica che ha per oggetto le cose del mondo, contrapposte ingenuamente ad una cosa che sembra porsi ai margini della realtà - la cosa pensante.

Di qui l'interpretazione preliminare che di fatto segna la riflessione delle Meditazioni sulla soggettività. Quando Cartesio, cercando una via che lo conduca oltre le secche del dubbio metodico, si imbatte nell'argomento del cogito, non pensa alla dimensione trascendentale e quindi all'esperienza come titolo generale cui ricondurre gli atti soggettivi e gli oggetti così come in essi sono colti; pensa invece a ciò che resta quando facciamo astrazione dalla totalità dei corpi. Di tutto possiamo dubitare, e anche di noi stessi; ma quest'affermazione significa soltanto - per Cartesio - che il nostro corpo e tutte le sue funzioni potrebbero essere un sogno: che vi sia invece un'anima che pensa è una verità indubitabile. Ciò che rimane al di là del dubbio sembra essere così soltanto la mente, che in sé ospita le immagini di una realtà che resta in linea di principio al di fuori dell'uscio e che in quelle immagini si rispecchia in modo forse inadeguato. L'io che resiste al dubbio è dunque una realtà immateriale, una cosa pensante che deve essere innanzitutto distinta dal mondo delle cose:

stupito di fronte a quest'ego scoperto nell'epoché, Cartesio si chiede di quale io si tratti, se sia per esempio l'io dell'uomo, dell'uomo sensibilmente intuitivo della vita comune. Poi esclude il corpo proprio - in quanto, come il mondo sensibile, in generale soggiace all'epoché; e l'io viene così a determinarsi per Cartesio come mens, anima, sive intellectus (ivi, p. 107).

Che questa fosse la meta cui Cartesio di fatto tendeva è difficile negarlo, e basta leggere il titolo della Seconda meditazione - Della natura dello spirito umano e che questo è più facile a conoscersi che il corpo - per convincersi che il dubbio per Cartesio si chiude in primo luogo indicando la presenza di una realtà certissima - la mente - che non sembra essere coinvolta dai destini del mondo.

In questa mossa sono implicite molte cose, ma è innanzitutto racchiusa una teoria dell'esperienza peculiare ed una nozione di fenomeno ben determinata. Se l'ego del cogito è l'intelletto umano, allora l'esperienza consisterà in idee che nell'anima sono racchiuse: dentro - nella soggettività della mente - vi sono le idee, i fenomeni come eventi che accadono nell'anima e di cui siamo coscienti, fuori nel mondo vi sono le cose reali, i corpi che la fisica deve indagare. Che la percezione e, in generale, la sfera del cogito possa essere esperienza di cose e non di idee, di oggetti che sono là di fronte a me e non qui in me, è un'ipotesi che per Cartesio deve essere fin da principio esclusa: ciò che, a suo avviso, il dubbio insegna non è che ogni realtà deve essere indagata nel suo senso a partire da ciò che l'esperienza ci mostra, ma è piuttosto la tesi secondo la quale del mondo posso dubitare poiché ne ho solo le immagini che la percezione mi offre, mentre di me non posso che essere certo, poiché il dubitare stesso è un'attività in cui si manifesta ciò che io sono - una cosa pensante.

A partire di qui è possibile tentare una risposta all'interrogativo che ci eravamo posti ed indicare quale sia la ragione che doveva accecare Cartesio ed impedirgli di cogliere ciò che Husserl ritiene che egli avrebbe dovuto cogliere come risultato delle sue indagini. La cecità di Cartesio è in fondo tutta qui: nella sua tacita accettazione del dualismo metafisico. Quest'ipotesi di carattere generale di fatto non è toccata dall'epoché ed anzi si intreccia ad essa, attribuendo al dubbio cartesiano un significato peculiare che trascende la funzione metodica cui pure Cartesio dichiara di attenersi: nell'esercizio del dubbio, il filosofo intende davvero negare almeno in parte il proprio assenso a ciò che esperisce, e in particolare ciò significa che l'epoché cui siamo invitati deve tradursi in una vera e propria negazione della realtà sensibile, - del mondo della vita, dunque. Così, per Cartesio, il faticoso cammino del dubbio conduce proprio là dove la riflessione filosofica moderna viene sospinta dagli interrogativi posti dalla nuova immagine fisicalistica della natura: il dubbio approda alla duplice tesi secondo la quale da un lato le sensazioni ci ingannano e nascondono l'universo matematico dei corpi della fisica, dall'altro l'io è ciò che resta dal naufragio dei corpi - una cosa pensante accanto alle cose estese. A fungere da presupposto del dubbio è così proprio il dualismo metafisico che la fisica galileiana sembra racchiudere in sé:

Cartesio non è qui per caso dominato preliminarmente dalla certezza galileiana di un mondo universale e assoluto di corpi e dalla distinzione di ciò che rientra nella sfera dell'esperienza meramente sensibile e di ciò che, in quanto matematico, è oggetto del pensiero puro? Secondo Cartesio non è per caso ovvio che la sensibilità rimanda ad un essente in sé ma può ingannare, e che quindi deve esistere una via razionale per giudicarla e per conoscere razionalmente e matematicamente l'essente in sé? Ma tutto ciò, e persino in quanto possibilità, non è forse stato messo tra parentesi mediante l'epoché? È evidente che, già in partenza, Cartesio mira a un fine predeterminato, malgrado il radicalismo, malgrado l'assenza di presupposti che egli esige; e la localizzazione di questo "ego" non è che il mezzo per questo fine. [...] L'ego non è un residuo del mondo, è bensì la posizione assolutamente apodittica che è resa possibile soltanto dall'epoché, dalla "messa tra parentesi" di tutte le validità del mondo, l'unica che da essa sia resa possibile. Ma l'anima è il residuo di un'astrazione preliminare dal puro corpo; dopo questa astrazione essa non è, almeno apparentemente, che un elemento integrativo del puro corpo. Ma (e ciò non va trascurato) quest'astrazione non risulta dall'epoché; essa è un prodotto dell'atteggiamento del naturalista e dello psicologo che operano sul terreno naturale del mondo già dato come ovviamente essente (ivi, pp. 107-108).

Di qui le ragioni che spingono le Meditazioni filosofiche cartesiane nella direzione che ci è ormai nota. Cartesio non si pone il compito di interrogare la sfera fenomenologica dell'esperienza trascendentalmente intesa, ma cerca una via che gli permetta di muovere dalla sostanza pensante alla sostanza estesa, di aprirsi un varco dall'una all'altra.

Di questo movimento e della sua possibilità il filosofo cartesiano deve cercare di rendere conto, poiché è fin da principio enigmatico il cammino che deve condurre dall'interno all'esterno, dalle immagini nella soggettività alle cose che la trascendono. Il dubbio diviene così espressione paradigmatica della necessità di superare argomentativamente lo iato che si apre tra i contenuti immanenti dell'esperienza e la loro pretesa di raggiungere un'obiettività trascendente. E ciò è quanto dire che per venire a capo del senso dell'esperienza conoscitiva è necessario affiancare al momento meramente descrittivo una fondazione metafisica che proceda sul piano argomentativo e che sembra farsi tanto più necessaria quanto più si fa minaccioso il dubbio scettico volto a screditare la legittimità dell'inferenza dalla dimensione soggettiva dell'esperire alla dimensione oggettiva dell'essere. Per far fronte a quello che Kant chiamerà "lo scandalo della filosofia" - il suo non saper dimostrare l'esistenza delle cose fuori di noi - il filosofo deve rinunciare al piano descrittivo e deve affidarsi allo strumento dell'argomentazione: la conoscenza del mondo esterno deve porsi così come il risultato di un argomentare che da una proposizione certissima deduce altre proposizioni egualmente certe - le proposizioni in cui il sapere si scandisce. Rispondere allo scetticismo e alle sue inquietudini teoriche significa allora mettere la mano su una proposizione certa, che valga come un chiodo cui fissare l'intera catena delle deduzioni conoscitive.

Di qui la struttura delle Meditazioni filosofiche cartesiane. L'epoché che apre le meditazioni non inaugura una descrizione fenomenologica dei vissuti, ma introduce di fatto un'argomentazione metafisica; e non a caso: il profondo bisogno argomentativo che si fa avanti nelle pagine cartesiane è infatti strettamente connesso con la riconduzione dell'esperienza sotto il titolo generale delle idee. Se le percezioni sono racchiuse nello spazio psicologico della soggettività, se l'io è un'anima che racchiude in sé i suoi contenuti psicologici, è necessario da un lato individuare un criterio che ci permetta di discernere i casi in cui l'inferenza dal segno al designato è affidabile e, dall'altro, indicare una ragione che ci impedisca di dubitare della bontà del criterio stesso.

Sappiamo già qual è la soluzione che Cartesio propone: un argomento, tratto di peso dagli scaffali della filosofia, deve dimostrare l'esistenza di un dio buono e, insieme ad essa, l'insensatezza di un dubbio che abbia per suo oggetto le nostre facoltà conoscitive. Lungo questo cammino, tuttavia, Husserl non intende seguire Cartesio, e non intende seguirlo perché ciò che per Cartesio è un problema - il passaggio dalle "idee chiare e distinte" alle cose trascendenti - è in realtà soltanto il segno di un fraintendimento, da cui la riflessione moderna farà fatica a liberarsi - il fraintendimento che si radica in una concezione dell'esperienza fondata sulla teoria delle immagini. Scrive Husserl:

Cartesio crede di poter realmente dimostrare, seguendo un percorso deduttivo che conduce a ciò che trascende la psiche, il dualismo delle sostanze finite (mediato dalla prima conclusione che ha per tema la trascendenza di dio). Proprio in questo modo egli ritiene di poter risolvere un problema che sembra importante se ci si pone nella sua contraddittoria prospettiva e che ritorna anche in una differente forma anche in Kant: il problema di come le mie formazioni razionali, prodotte nella mia ragione (le mie clarae ed distinctae perceptiones) - quelle della matematica e della scienza naturale matematica - possano pretendere ad una validità obiettivamente "vera", a una validità metafisicamente trascendente (ivi, p. 109).

Di qui il carattere peculiare della filosofia cartesiana, il suo essere sospesa tra un interesse obiettivistico prevalente ed un incipit teoretico che la dispone in un orizzonte trascendentale, tra un'istanza dualistica di fondo e la domanda trascendentale sulle condizioni cui è vincolato il significato obiettivo del conoscere.

La storia della riflessione filosofica moderna rimane, per Husserl, sotto l'egida cartesiana, e ciò significa che la contraddittorietà implicita nelle sue Meditazioni doveva ripercuotersi anche nel cammino del razionalismo e dell'empirismo - queste due grandi correnti filosofiche che nelle pagine della Crisi ci appaiono come una conseguenza della filosofia cartesiana, come un tentativo di districare il nodo che Cartesio aveva stretto. Così la filosofia moderna doveva da un lato assumere le forme del razionalismo metafisico, di una filosofia

dominata dalla convinzione di poter attingere attraverso il metodo del "mos geometricus" una conoscenza assolutamente fondata e universale di un mondo che è pensato come un "in sé" trascendente (ivi, p. 111).

Ma doveva anche, dall'altro, reagire criticamente ad una riflessione che pretendeva di costruire razionalmente il sistema del mondo senza indicare la via per una sua adeguata fondazione gnoseologica. L'empirismo nasce così come una filosofia trascendentale scetticamente atteggiata, come un'indagine che, constata l'assenza di un criterio affidabile che ci consenta di attribuire un significato reale alle idee, vuole in primo luogo mostrare l'inammissibilità del dogmatismo razionalistico e che in vista di questo obiettivo percorre il cammino delle indagini soggettive. Del resto la piega scettica dell'empirismo è ancora una volta racchiusa nella sua matrice cartesiana: l'io che la filosofia empiristica indaga è proprio la mente come residuo del mondo che Cartesio coglie come approdo del dubbio - è, dunque, la coscienza come luogo interno in cui sono racchiuse le immagini di una realtà trascendente cui non è possibile accedere. Ed alla luce di queste considerazioni la piega scettica dell'empirismo inglese deve apparirci come un segno della contraddittorietà implicita nel tentativo di ricondurre l'esperienza ad un fatto psicologico, ad un evento che si differenzia dagli altri solo perché accade in uno spazio peculiare - lo spazio immanente della coscienza. Sullo sfondo del fraintendimento cartesiano e della contraddittorietà di una concezione dell'esperienza che la rinchiude nello spazio angusto di una soggettività pensata come una sostanza dai confini invalicabili comincia così a delinearsi il cammino che avrebbe dovuto essere perseguito - l'idea di una concezione dell'esperienza fondata sul concetto di intenzionalità e sulla tesi che ogni esperienza percettiva è già di per se stessa esperienza di un oggetto e non possesso di un'immagine mentale, di un'idea chiusa nella res cogitans.

 

 

 

 

 

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