Le parole della filosofia, III, 2000

Seminario di filosofia dell'immagine


Le figure della cornice

L'invenzione del quadro di Stoichita e l'arte novecentesca

- Matilde Battistini -

Magritte, La riproduzione vietata, 1937

1. Introduzione

Inserire il tema della cornice nel quadro più allargato di una riflessione teoretica intorno al concetto di rappresentazione nell'arte del ventesimo secolo significa non solo prendere atto della specificità di un oggetto d'indagine sostanzialmente aporetico ma, in primo luogo, assumere un atteggiamento dialogico nei confronti di alcune delle definizioni che hanno contrassegnato il problema in questione nel corso della tradizione teorica e figurativa occidentale. Tale confronto aiuterà a delineare lo statuto della cornice in quanto soglia, indice, condizione di possibilità della rappresentazione e come fulcro percettivo dei suoi contenuti, e contribuirà a tracciarne alcune possibili figure.

Sin dalle sue origini, la cornice sembra svolgere un ruolo determinante all'interno dei meccanismi di produzione e ricezione delle immagini, attivando quella funzionalità, normativa e selettiva, indispensabile per separare il dominio dell'arte dal mondo reale. La posizione liminare e la funzione di cesura tra due diverse forme di realtà, il mondo fenomenico e la rappresentazione pittorica, fanno della cornice un oggetto estremamente ambiguo in quanto "luogo, o non-luogo, di un'articolazione mai semplice, mai data una volta per tutte, tra lo spazio dell'opera [il di dentro della rappresentazione] e lo spazio dello spettatore [il di fuori]". Questa ambiguità viene inoltre ad essere accresciuta dal fatto che la cornice sembra esercitare la sua massima funzionalità come centro d'aggregazione e coerenza percettiva dell'immagine pittorica nel momento stesso in cui si cela e si nasconde come limite.

Definendo il quadro "una finestra aperta sul mondo", Leon Battista Alberti si proponeva di tracciare un parallelo tra la realtà fenomenica, governata da particolari leggi ottico-fisiche e il mondo della rappresentazione pittorica, la cui legittimità "scientifica" veniva fondata sulla possibilità di tracciare una relazione di corrispondenza e di conformità tra due analoghe, seppur distinte, strutture spaziali. Nella seconda metà del Cinquecento, tale rapporto si complica: l'indagine critica sui limiti interni ed esterni dell'opera d'arte conduce i pittori fiamminghi a concepire il quadro come un frammento di realtà "ritagliato" dalla cornice "senza alcun divario e alterazione". Il raddoppiamento e la conseguente ambiguità dell'immagine, propri della cultura illusionista, fondano un nuovo modo di concepire la pittura e implicano un atteggiamento inedito nei confronti dell'immagine.

Nel corso del Novecento, all'interno della radicale riformulazione dei codici rappresentativi del passato, la cornice sembra riappropriarsi della sua problematicità originaria, recuperando alcune delle caratteristiche paradigmatiche che aveva esibito in epoca moderna. L'indagine condotta dagli artisti presi in considerazione sembra infatti concentrarsi su una questione di fondo, che più che riguardare i modi della presentazione del prodotto artistico, tocca la sostanza stessa della rappresentazione.

2. Uno strumento d'indagine

In questo lavoro si analizzeranno le funzioni dell'incorniciamento dell'immagine nell'arte del ventesimo secolo, assumendo le "figure" della cornice come segnali distintivi del processo di ridefinizione del concetto di rappresentazione. In particolare si cercherà di rintracciare quei meccanismi o dispositivi di "autopresentazione" della rappresentazione pittorica analizzati da Victor Stoichita nel libro L'invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea (il Saggiatore, Milano 1998). Tali dispositivi possono essere letti come i "segnali-spia" di una vera e propria riflessione metapittorica sullo statuto dell'immagine condotta all'interno della pittura stessa.

È interessante notare come i meccanismi rilevati da Stoichita nell'ambito dell'indagine intorno alla pittura cinque-secentesca giochino un'analoga funzione "interpretativa" nella pratica pittorica di alcuni dei principali esponenti delle avanguardie novecentesche: in particolare nella pittura cubista di Georges Braque e Pablo Picasso, nei ready-made di Marcel Duchamp e negli "oggetti di affezione" di Man Ray, nelle immagini surrealiste di Max Ernst, Salvador Dalí e René Magritte.

La scelta dei pittori qui presentati non è pertanto casuale ma corrisponde al tentativo di tracciare delle coordinate di continuità o di dissonanza tra due modalità di pensare l'arte e, più in generale la rappresentazione, estremamente significative all'interno della storia del pensiero artistico-filosofico occidentale: la concezione illusionistica dell'immagine e la sua messa in discussione in epoca contemporanea. Il lavoro interpretativo condotto dagli artisti presi in considerazione è infatti finalizzato all'esibizione problematica dei "margini" e delle modalità del rappresentare: raddoppiamento e opposizione, rovescio e diritto, saturazione e negazione, cortocircuito dei limiti interni dell'arte e della frontiera estetica, esasperazione delle potenzialità di comunicazione, assorbimento o repulsione dello spettatore all'interno dell'opera. Per questa via la riflessione pittorica primonovecentesca porterà alle estreme conseguenze il problema della messa in discussione dell'immagine. Questi artisti lasceranno in eredità alle generazioni successive la tragica o ironica consapevolezza del raggiungimento dei limiti dell'arte e il compito di operarne una radicale ridefinizione.

In questa sorta di lettura "comparata" verranno circoscritti tre principali ambiti di riflessione: (a) il rapporto tra realtà e rappresentazione; (b) il problema dello statuto dell'oggetto nell'arte; (c) le soluzioni date alla questione dello spazio pittorico nelle due antitetiche direzioni della spazialità bidimensionale e dell'illusionismo prospettico.

A. Realtà e rappresentazione

 

La cornice separa l'immagine da tutto ciò che non è immagine. Definisce quanto da essa inquadrato come mondo significante, rispetto al fuori-cornice, che è il mondo del semplice vissuto. Dobbiamo tuttavia porci la domanda: a quale dei due mondi appartiene la cornice? (Stoichita, L'invenzione del quadro, cit., p. 41).

 

La cornice è la chiusura regolare che isola il campo della rappresentazione dalla superficie circondante (Meyer Shapiro, 1983, p. 13).

 

La cornice, o il bordo, delimitano il campo di attività sia del decoratore che dell'osservatore. Il bordo o la cornice possono descriversi come una 'lacuna' continua che distacca il disegno dal suo intorno. Importa poco in qual modo tale discontinuità si realizzi; può essere costituita da un contrasto di forma o di colore, da un mutamento di direzione, o persino da uno spazio vuoto. Basta che l'osservatore venga messo sull'avviso di una netta rottura della regolarità. Scoprendo un simile campo racchiuso ci attendiamo una zona che valga la pena di esaminare. Una volta impegnati in tale esame, il bordo funzionerà come una barriera vista con la coda dell'occhio. Ci dirà dove cominciare e dove finire, e lo farà tanto più efficacemente quanto più semplice ne sarà la forma. (E.H. Gombrich, Il senso dell'ordine, cit., p. 146).

 

Analizzare lo statuto e le funzioni della cornice nella rappresentazione pittorica del primo Novecento comporta in primo luogo operare una riflessione sulla sua paradossalità sostanziale: la cornice infatti è un oggetto esterno al contenuto, o enunciato rappresentativo, ma al tempo stesso è a esso indissolubilmente legata. Come indice e soglia dell'ingresso nel mondo della rappresentazione essa deve necessariamente porsi come linea di demarcazione tra l'immagine e tutto ciò che non lo è; tuttavia, come tessuto connettivo tra due spazi assolutamente distinti deve poter stabilire una congiunzione di pertinenza interna al mondo dell'enunciato rappresentato.

Proprio per questa sua natura liminare la cornice assume un ruolo chiave all'interno dell'indagine novecentesca sullo statuto dell'opera d'arte e sui margini della rappresentazione, presentandosi come il "cardine" attorno al quale ruota la riflessione critica sui meccanismi di produzione illusionistica delle immagini e prova a essere rifondato il concetto di rappresentazione. Questa funzione critico-interpretativa viene svolta dalla cornice assumendo alcune "figure" particolari: la finestra, la nicchia, la soglia, il quadro nel quadro.

1. La finestra

 

Il 'paesaggio in finestra' non è soltanto un frammento in rapporto all'opera, ma lo è anche in rapporto alla natura stessa. In rapporto all'arte come in rapporto alla natura, la finestra isola un frammento e gli permette a sua volta di proporsi come una nuova totalità (Stoichita, op. cit., p. 51).

Questa definizione ci aiuta a illustrare il ruolo della cornice come condizione di possibilità della rappresentazione pittorica, come vettore della coerenza percettiva e logica dell'enunciato rappresentato e come veicolo di focalizzazione dell'attenzione dell'osservatore all'interno dello spazio della rappresentazione.

Ricordiamo le parole di Ortega Y Gasset a proposito dell'analogia tra quadro e finestra: "Il quadro è un'apertura di irrealtà che avviene magicamente nel nostro ambito reale. [...] la cornice ha qualcosa della finestra, così come la finestra ha molto della cornice. Le tele dipinte sono buchi di idealità praticati nella muta realtà delle pareti: brecce di inverosimiglianza a cui ci affacciamo attraverso la finestra benefica della cornice. [...] Quando guardo questa grigia parete domestica, la mia attitudine è, per forza, di un utilitarismo vitale. Quando guardo il quadro, entro in un recinto immaginario e adotto un'attitudine di pura contemplazione. Sono dunque, parete e quadro, due mondi antagonistici e senza comunicazione. Dal reale all'irreale, lo spirito fa un salto, come dalla veglia al sonno. L'opera d'arte è un'isola immaginaria che fluttua, circondata dalla realtà da ogni parte".

Il motivo del paesaggio visto attraverso una finestra tematizza le problematiche relative alle opposizioni tra interno ed esterno, natura e cultura. Nel Cinque-Seicento, perché la natura fosse recepita come paesaggio pittorico occorreva che fosse esibita la cesura e il taglio dell'immagine rispetto al contesto naturale. La finestra aveva la funzione di tematizzare l'atto di "ritagliare la natura", inquadrandola, come pittura.

Osserviamo come, nel corso del Novecento, i pittori presi in considerazioni si siano soffermati sul tema del rapporto tra realtà e rappresentazione e in quali termini abbiano proposto un'inversione della relazione gerarchica tra i due poli della questione:

R. Magritte, Il panorama, 1931

L'immagine è un esplicito richiamo al "quadro-finestra" rinascimentale: su un rozzo muro di mattoni si apre un varco, significativamente delimitato con del legno grezzo, attraverso cui osservare un panorama.

Ma dall'insolita finestra l'osservatore non accede a un paesaggio, bensì piuttosto a una visione onirica che ha come suo fulcro catalizzatore un misterioso oggetto sferico.

Si tratta del grelot, un sonaglio applicato ai finimenti dei cavalli. Questo oggetto d'uso comune ricorrerà a più riprese nell'opera di Magritte con la funzione di connotare di mistero e spaesamento immagini pittoriche apparentemente del tutto banali.

Concependo le proprie immagini come vere e proprie "trappole per lo sguardo", il pittore belga fa leva sullo statuto paradossale della cornice per enfatizzare i meccanismi stranianti della rappresentazione (Cfr. J. Beauffet, Le surréalisme, le cadre et la mise en espace des œuvres, in Le cadre et le socle, cit., pp. 116-129).

Magritte, Il dominio di Arnheim, 1949

Il rapporto tra interno ed esterno, tra realtà e rappresentazione è uno dei temi centrali della riflessione pittorica di Magritte. Il dipinto di Magritte sembra constatare l'impossibilità di una distinzione e di una definizione percettivamente e logicamente coerenti tra il dentro e il fuori della rappresentazione: le tele dipinte bucano le pareti e le immagini in esse rappresentate perforano il supporto materiale della tela per mettere in comunicazione due realtà assolutamente identiche, e come tali, difficilmente distinguibili. Sui cocci di vetro caduti a terra sono ben visibili i pezzi che ricompongono il puzzle della rappresentazione. Il quadro-finestra è affacciato su un mondo che si propone come esatto duplicato della rappresentazione. Con questo raddoppiamento Magritte mette in crisi i tradizionali meccanismi di lettura e ricomposizione logica dell'immagine e sembra abolire qualsiasi coordinata percettiva in grado di stabilire una distinzione o "difformità" tra i diversi spazi della rappresentazione e della realtà.

A proposito dell'utilizzo magrittiano della metafora del "quadro-finestra", Filiberto Menna (La linea analitica dell'arte moderna, Einaudi, Torino 1997) sottolinea la distanza di Magritte dai codici rappresentativi nati nel Novecento: "Guardare una scena attraverso la finestra-cornice del quadro vuol dire situare i personaggi e le cose secondo un certo ordine gerarchico rispetto al punto di osservazione, vuol dire recuperare (magari sconvolgendone la logica) la nozione del lontano e del vicino, del centro e della periferia, dell'alto e del basso, significa insomma riattribuire valore a tutta una serie di nozioni cui l'arte moderna, a partire dall'impressionismo, aveva progressivamente tolto credito" (pp. 54-55).

Magritte, Il canocchiale, 1963

Quest'ordine di considerazioni traspare bene in un altro quadro di Magritte, intitolato Il cannocchiale.

In quest'opera apparentemente canonica sono presentate in maniera straniante le caratteristiche salienti della rappresentazione pittorica moderna (rinascimentale-seicentesca): la concezione del quadro come finestra aperta sul mondo; il cannocchiale prospettico; l'attraversabilità e la trasparenza del piano della rappresentazione.

L'anta di sinistra della finestra denuncia come la riflessione magrittiana sulla natura e sui codici rappresentativi delle immagini sia sempre caricata di elementi aporetici. Esibendo sottilmente e quasi impercettibilmente la trasparenza del vetro della finestra, Magritte esaspera la percezione di ambiguità percettiva propria del suo concetto di margine: presentandosi come soglia dell'interscambio tra spazio interno e spazio esterno la parete di fondo sembra negare e nello stesso tempo accentuare la presenza stessa di un limite tra il dentro e il fuori della rappresentazione. La finestra dunque non ha più la funzione di porsi come catalizzatore nella definizione del genere pittorico del paesaggio, bensì diventa quella soglia ambigua attraverso cui il gioco della rappresentazione viene svelato come l'unico abitante di diritto del mondo delle immagini. Partendo dalla "contraddizione tra superficie e rappresentazione, tra lo spazio bidimensionale della tela e lo spazio tridimensionale della realtà esterna", Magritte pone "in termini radicali la questione dell'illusionismo pittorico" (F. Menna, cit., p. 54).

L'indagine critica sull'illusionismo è condotta da Magritte - a differenza dei cubisti - dall'interno di un medesimo codice iconico, ossia mettendo in discussione la concezione del "quadro-finestra", con gli stessi mezzi della rappresentazione illusionistica. Tuttavia, come fa notare ancora Filiberto Menna, "da questa partenza comune, le vie si dirigono in direzioni opposte: la finestra albertiana si affaccia sull'esterno, quella surrealista sull'interno; la prospettiva rinascimentale è uno strumento di sistematizzazione del mondo che sta fuori di noi, è un tentativo di ordinare l'esistente inteso come natura visibile (per l'Alberti la pittura opera appunto sul visibile) e la piramide visiva è come un riflettore che svela e ordina nel tempo stesso le apparenze fenomeniche, partendo dal punto di vista fisso dell'occhio dell'artista-osservatore. Anche il surrealismo recupera una spazialità prospettica, ma dissolve (sulle tracce dechirichiane) la centralizzazione rinascimentale in frammenti aventi ciascuno un proprio sistema [...]. Visione e immaginazione sono gli strumenti diversi, anzi opposti, di cui si servono l'Alberti e Breton, e tuttavia strumenti in qualche misura complementari per il loro comune carattere mentale, produttivo, sistematizzante. [...] Sul piano più specificamente linguistico, la complementarietà delle due posizioni si rivela nella comune acuità visiva, nella gradienza prospettica (e nel suo capovolgimento), e, comunque, nel rifiuto opposto da un intero settore del surrealismo a quella riconquista della superficie che caratterizza gran parte dell'arte contemporanea" (F. Menna, cit., p. 55).

Nella ripresa letterale della concezione classico-rinascimentale del "quadro-finestra" esibita dal Grande vetro (1915-1923), Duchamp sembra estendere la funzione di trasparenza, tradizionalmente connaturata all'opera d'arte, dal mondo delle immagini al contesto ambientale che le circonda. Il denudamento che l'oggetto artistico subisce a opera dello sguardo dello spettatore, la sua estrema attraversabilità percettiva sottolinea l'abbandono di qualsiasi atteggiamento sacrale nei confronti del prodotto artistico. Questo lavoro è concepito in maniera diametralmente opposta a Fresh Widow (1920), dove una finestra dai vetri oscurati con fogli di cuoio nero sancisce lo stato di "vedovanza" imposto all'oggetto d'arte in seguito alla perdita della trasparenza dell'immagine.

2. La nicchia

 

Proprio come nel caso della finestra (e della porta), anche la nicchia si palesa come uno iato nella superficie piana di una parete. Ma a differenza della finestra (e della porta), non la fora: la scava. Fin dalla preistoria delle sue origini, la natura morta ha trovato nello spazio della nicchia il proprio paradigma spaziale. (Stoichita, op. cit., p. 42).

Come la finestra, anche la nicchia è una delle figure attraverso cui si dipana la riflessione intorno ai margini della rappresentazione.

Dalì, Natura morta 1947

Questa natura morta di Dalì presenta significative analogie strutturali con i bodegones di Cotán (fine '500/inizio '600): presenza di un "fuori margine", corrispondente al bordo superiore della nicchia, invisibile nell'immagine; strutturazione degli oggetti in trompe-l'œil; presentazione asimmetrica delle pareti in verticale della nicchia (in questo caso è visibile la sola parete di sinistra); assoluta mancanza di contatto tra gli oggetti dell'immagine, che non si toccano né si sovrappongono; presenza di una iscrizione (Feather equilibrium) nella parte centrale del quadro sul davanzale della nicchia, laddove Cotán era solito firmare le proprie opere.

Con questo gesto il pittore del XVII secolo voleva sottolineare la presa di possesso della "frontiera estetica", della soglia di passaggio tra il mondo della realtà e quello della rappresentazione e la piena legittimità dell'immagine come ergon, opera.

Nel quadro assistiamo anche alla messa in opera dello sconfinamento, dell'invasione dell'oggetto raffigurato nello spazio di confine tra la rappresentazione pittorica e lo spazio abitato dallo spettatore. Il margine della rappresentazione viene presentato in tutta la sua ambiguità percettiva come soglia della demarcazione ma anche della correlazione tra spazio interno e spazio esterno all'immagine.

In quest'opera Dalí esibisce la sua personale interpretazione dello spazio pittorico come disgregazione esplosiva delle tradizionali coordinate spazio-temporali del dipinto: gli oggetti fluttuano nell'aria completamente disancorati dalla legge di gravità, abitanti di un mondo privo di qualsiasi coerenza percettiva e al limite della totale assenza di coesione.

 

3. La soglia

 

 

La porta sfonda la parete divisoria tra due stanze, tra due ambienti, tra due spazi. Rappresenta un limite meno categorico rispetto alla finestra, la quale separa 'cultura' e 'natura', mentre la porta si limita a costituire uno iato in seno al mondo della cultura (Stoichita, op. cit, p. 55).

Dalì, Gala e l'Angelus di Millet 1933

Ernst, La vestizione della sposa, 1939

Porta, dunque, come soglia di ingresso e diaframma di passaggio alla rappresentazione e ai suoi codici costitutivi; porte come vie d'accesso alla riflessione metapittorica sull'immagine: nella pittura del Seicento, infatti, il motivo della porta viene utilizzato come "metodo di autodefinizione della pittura di interni" (Stoichita, op. cit., p. 59). Il Novecento riprende ed enfatizza proprio la funzione interpretativa del topos pittorico della porta utilizzandolo per sottolineare il "carattere dialogico" dei diversi piani dell'immagine.

Rispetto alla tradizione secentesca, che solitamente attribuiva alla figura centrale il ruolo di "guida" all'immagine, nei dipinti di Dalí e Ernst è il personaggio in primo piano a invitare, con lo sguardo o con la postura, all'abitazione dell'immagine. Oltre la soglia è inscenata la rappresentazione vera e propria.

Nel quadro di Ernst, il motivo tematico della vestizione della sposa viene enfatizzato dal raddoppiamento dell'immagine sullo sfondo e dall'eloquente torsione del personaggio centrale verso l'interno della rappresentazione; nel dipinto di Dalí il tema della citazione pittorica (l'Angelus di Millet), presentato come sovra-porta, assume la funzione di introdurci all'interno della rappresentazione e dei suoi contenuti ossessivi.

4. Il quadro nel quadro

 

 

Nei dipinti con cornici di porte, di finestre o di nicchie chi guarda è chiamato a veder l'immagine con gli occhi dell'artista emittente. Egli si trova davanti alla situazione di emissione. Nei quadri con cornice finta, è il pittore a sdoppiarsi, mettendo se stesso (e la propria opera) nella situazione di ricezione. In entrambi i casi, i limiti dell'immagine vengono forzati. I rispettivi ruoli dell'artista e di chi guarda si suppone siano, in un modo o nell'altro, intercambiabili (Stoichita, op. cit., p. 65).

Magritte, I segni della sera, 1926

Magritte, Il messaggio alla terra, 1926

Nei Segni della sera, il tema del "quadro nel quadro" è proposto da Magritte attraverso l'esibizione di una realtà e di uno spazio racchiusi strettamente entro i confini della rappresentazione: la cornice nel paesaggio, lo squarcio sulla superficie della tela, l'immagine, rivelata o svelata dall'apertura dei lembi di tessuto di natura completamente differente rispetto al paesaggio che le fa da sfondo. Tuttavia i diversi piani della rappresentazione sono messi in comunicazione tra loro tramite la piccola sfera bianca in primo piano, che sembra essere appena rotolata fuori dall'immagine in cornice.

L'ambiguità tra i confini dell'immagine, l'interscambiabilità dei diversi piani della rappresentazione, il carattere paradossale e ambivalente dello stesso oggetto-cornice - estraneo ma al tempo stesso coerente e contiguo al mondo dell'enunciato rappresentato - sono, ancora una volta, i temi dominanti della riflessione di Magritte.

Il rapporto tra interno-esterno viene presentato in tutta la sua ambiguità percettiva anche nel Messaggio della terra, dove una cornice, in apparenza vuota, sembra isolare una porzione di spazio all'interno dell'immagine. A una lettura più attenta si nota però la presenza significativa di un segno grafico - la firma dell'artista - appena all'interno dei margini della cornice. Con questa piccola intrusione il pittore stimola uno sconcertante ribaltamento percettivo, obbligando lo spettatore a una radicale rilettura del dipinto: quello che sembrava lo sfondo dell'immagine balza ora prepotentemente in primo piano, presentandosi non più come porzione di paesaggio incorniciato, bensì come un enunciato figurale perfettamente compiuto. Tra questo enunciato, interno alla rappresentazione, e lo sfondo che gli fa da cornice esiste un ambiguo, ma solidissimo, terreno di comunicazione: la contiguità della linea dell'orizzonte e del cielo. Le tradizionali coordinate di lettura dell'immagine sono esibite con meticolosa precisione al fine di essere sistematicamente smentite.

Magritte, La condizione umana, 1933

Magritte, Il richiamo delle vette, 1942

Magritte, La condizione umana, 1934

Magritte, Le passeggiate di Euclide, 1955

In questa serie di opere, lo straniamento percettivo è indotto da Magritte attraverso uno sfalsamento e uno scarto dalla totale sovrapposizione dei diversi piani dell'immagine: i cavicchi di legno, le gambe dei cavalletti e la luce di taglio sui lati delle tele inducono lo spettatore a una rilettura dell'immagine e a un ripensamento radicale dei suoi contenuti. Ciò che prima sembra essere un'apertura che dà su un paesaggio si rivela poi la sua raffigurazione.

Dalì di spalle che dipinge Gala di spalle 1972-1973

Analizziamo ora gli elementi costitutivi del dipinto di Dalí nella convinzione di assistere, come ne L'arte della pittura (1665) di Vermeer e ne Las Meninas (1656) di Velázquez, alla tematizzazione del farsi della rappresentazione e dei suoi limiti e alla tensione tra presenza e assenza dell'immagine.

1) Il pittore di spalle. Secondo Stoichita: "La presenza dell'artista al lavoro internamente alla propria opera è affrontato da Velázquez sotto il segno dell'io dell'autore - chiaramente visibile e riconoscibile come faber dell'immagine - e da Vermeer sotto il segno dell'altro al lavoro - il pittore voltato di spalle introduce a uno "scenario di produzione in terza persona" -; Velázquez ci mostra il suo volto, ma nasconde ai nostri occhi il suo fare; Vermeer ci mostra il suo fare, ma ci nasconde il suo volto. [...] Entrambi pongono il loro fare al centro del problema della rappresentazione. In Velázquez a dominare è il problema delle 'inquadrature', in Vermeer quello delle 'superfici segniche'. In entrambi l'accesso all'immagine implica uno 'svelamento'" (Stoichita, cit., pp. 264-265). Dalí ci propone un raddoppiamento del tema dell'artista di spalle nella figura della moglie Gala come artefice della propria rappresentazione, se non pittorica, almeno speculare.

2) La tela sul cavalletto. Il fondo scuro della tela, su cui il pittore sta appena abbozzando i tratti del suo dipinto, è in stretta relazione dialogica con altre figure che raddoppiano i limiti della rappresentazione dell'immagine: lo specchio e la parete di chiusura della stanza. Tela e specchio sono superfici "sature di segni", i tratti abbozzati e i riflessi, senza essere veri e propri quadri. Sono, al contrario, "rappresentazioni allo stato limite"; la parete di fondo è invece la cornice-limite che chiude lo spazio della rappresentazione. La posizione centrale del cavalletto all'interno dello spazio abitato dalla scena dipinta ha la funzione di mettere in comunicazione i vari momenti del farsi della rappresentazione e della lettura dell'immagine: la tela centrale è l'intermediario tra i limiti fisici (primo-piano e parete di fondo) e metaforici (tenda e specchio) della rappresentazione. La messa in comunicazione di questi differenti superfici-limite è sottolineata dalla doppia presenza della sedia e della figura di spalle.

3) La tenda. La parte sinistra dell'immagine è interamente occupata da un'ampia finestra attraverso la quale filtra l'unica fonte di luce della stanza. Sul margine destro della finestra scorgiamo una pesante tenda aperta, che sembra riproporre il carattere di "svelamento" del mistero della creazione pittorica proprio di tanti dipinti secenteschi. Essa ha una funzione emblematica perché, da un momento all'altro, potrebbe essere richiusa, oscurando completamente la scena e rendendo impossibile l'esibizione e la visione della rappresentazione.

4) Lo specchio. Ricordiamo ancora le parole di Stoichita a proposito dell'immagine speculare: "... Essa può, quando si trovi a essere quadro, riflettere qualcosa che sia nella rappresentazione oppure qualcosa che ne stia al di fuori. In quest'ultimo caso funziona anche come 'segno', poiché 'occupa il posto' di una realtà assente. Lo specchio rende 'presente', incorporandolo nell'immagine, qualcosa che gli sta (stava) di fronte: l'artista" (Stoichita, cit., p. 221). Presentando la propria immagine e quella di Gala riflesse nello specchio, Dalí sembra risolvere uno dei problemi di fondo di ciò che Stoichita definisce l'"immagine del fare" : la rappresentazione simultanea dell'artista e del suo fare. Nella scena lo spettatore assiste alla ricomposizione della frattura tra "istanza attiva" - il pittore all'opera voltato di spalle - e "istanza contemplativa" della rappresentazione - il pittore che guarda, rendendosi visibile, il frutto della sua opera.

5) Lo sguardo. A differenza del quadro di Vermeer, in cui lo sguardo attivo dello spettatore-scopritore si pone in antitesi con l'assenza di sguardi interna alla rappresentazione, pittore e modella dialogano tra loro sulla superficie riflettente dello specchio e indirettamente con lo spettatore.

6) Il telaio. "Il rovescio del quadro è un anti-quadro, un'anti-pittura. In quanto oggetto raffigurato in pittura, esso possiede, comunque, e paradossalmente, qualità plastiche indubbie" (Stoichita, cit., p. 239). Il riflesso nello specchio non solo ci svela l'identità dei due protagonisti della scena e, con essa, il tema meta-pittorico del dipinto, ma ci offre anche un'immagine, emblematica, per la sua paradossalità: la rappresentazione del "negativo" di ogni pittura e di ogni cornice, il retro di un quadro.

Con questo dipinto ho voluto sottolineare il recupero da parte del Novecento della sostanza problematica dell'arte, così come era stato posto dall'età moderna. Come nel Seicento si assiste alla nascita dell'arte in quanto problema, anche nel nostro secolo la problematizzazione dell'immagine, ovvero la riflessione intorno al suo statuto e ai suoi limiti, costituisce uno dei temi di fondo della rappresentazione pittorica. In questo contesto "conoscitivo" la cornice è dunque proposta come il dispositivo-cardine della rappresentazione e della presentazione dell'oggetto nell'arte.

 

B. Lo statuto problematico dell'oggetto artistico

1. Il piedistallo

 

Il "piedistallo-cornice" è uno strumento di isolamento e sacralizzazione che determina l'arte quale attività ornamentale, "fregio e decorazione" (Celant, Il limite svelato, cit., p. 11).

 

Per molti artisti del primo Novecento l'avanguardia rappresenta la possibilità di porre fine alla concezione dell'opera d'arte come "oggetto separato dal nostro ambiente circostante" (P. Mondrian). L'impellente bisogno d'integrazione del mondo dell'arte a quello della vita porta a un radicale ripensamento delle tradizionali funzioni attribuite alla cornice nel corso dei secoli: "La cornice è ripensata nella sua natura, nella sua funzione, nella sua struttura e nella sua forma; essa cessa di essere un recinto tra l'opera e il suo 'di fuori' per divenire l'indice di un nuovo statuto dell'opera d'arte: non più una rappresentazione dove si distacca e si scava illusionisticamente un segmento del mondo, ma un piano frammentario dell'essenza dell'universo" (J-C. Lebenszteijn, op. cit, p. 15).

Il papier collé esibisce il raggiungimento del valore anti-mimetico e puramente "iconico" della rappresentazione cubista. I caratteri tipografici, talvolta introdotti nell'immagine, sono puri segni grafici, aventi valore compositivo e plastico all'interno di una cornice spaziale puramente bidimensionale. La loro presenza sottolinea l'iconicità dell'immagine in quanto essi fungono da elementi puramente segnici della rappresentazione. Realtà e rappresentazione finiscono quindi per assumere un analogo statuto di legittimità. In questa sorta di "parallelismo ontologico" tra arte e realtà, la cornice cubista può essere interpretata come una sottile parodia delle funzioni tradizionalmente attribuite all'incorniciamento, ed in particolar modo la necessità di "contenere" e "separare", grazie a un dispositivo di chiusura regolare, i margini della rappresentazione dal mondo esterno, al fine di garantire la leggibilità dell'immagine e la sua coerenza interna, visiva e mentale.

La presenza di una targhetta, giustapposta al dipinto con la firma dell'artista, serve ad enfatizzare il motivo dell'unicità del soggetto creatore e dell'irripetibilità del gesto artistico. Con questa citazione tratta dalla tradizione pittorica, Braque vuole sottolineare ironicamente la sua presa di distanza da una concezione ispirata della creazione artistica e dal valore sacrale generalmente attribuito all'opera d'arte.

Braque, La musicista, 1918

Con l'assemblaggio cubista e il ready-made dadaista, le avanguardie primonovecentesche avvicinano l'immagine pittorica alla dimensione "a tutto tondo" della scultura sancendo progressivamente la traducibilità e lo sconfinamento dei diversi generi artistici.

2. L'involucro

Soglia e linea di demarcazione tra spazio interno e spazio esterno all'immagine pittorica, ma anche membrana e tessuto connettivo capace di instaurare una relazione dialettica d'integrazione o abolizione tra l'opera d'arte e il suo spazio di abitazione, l'involucro può essere meglio definito attraverso le due specificazioni di contorno e bordura.

Il contorno è "il tracciato non materiale che separa lo spazio in due regioni, per creare lo sfondo e la figura. Il contorno si distingue dal semplice limite in ciò che quest'ultimo definisce topologicamente - ossia in maniera neutra - un interno e un esterno" (Groupe m , Sémiotique et rhétorique du cadre , cit., p. 115). Il contorno dunque è inteso come margine perimetrale appartenente alla figura stessa.

La bordura è invece "l'artificio che, in uno spazio dato, designa come unità organica un enunciato d'ordine iconico o plastico" (Groupe m , cit., p. 115). Essa è un "indice" che conferisce uno statuto semiotico omogeneo all'enunciato indicato; ma è anche un "vettore" di focalizzazione dell'attenzione dello spettatore. "La bordura è al tempo stesso inclusa ed esclusa dallo spazio indicato. Si può perfino definirla di volta in volta come un limite e come un luogo di passaggio. O meglio, come uno strumento di mediazione tra lo spazio interno, occupato dall'enunciato, e lo spazio esterno" (Groupe m , cit., p. 117)

Picasso, Natura morta con sedia impagliata, 1912

In quest'opera Picasso riprende in chiave ironica il tema classico della natura morta sulla tavola trasferendolo sul piano più modesto di una seduta di sedia. Nel dipinto sono riuniti molti elementi tipici del cubismo sintetico: i caratteri tipografici con valore spaziale e compositivo; l'uso di materiali e procedimenti pittorici artigianali e, soprattutto, il tema dell'object trouvé, con l'introduzione di una tela cerata che riproduce l'impagliatura della sedia e della corda che "incornicia" il quadro.

Concentriamoci brevemente sul ruolo dell'object trouvé nella pittura cubista al fine di comprendere più chiaramente la portata della novità della corda-cornice nel quadro di Picasso.

Per non ricadere nel realismo illusionistico Braque e Picasso introdussero, a partire dal 1910 all'interno dei loro quadri, veri e propri "pezzi di realtà" tratti dal mondo reale: legni, stoffe, carte da parati, chiodi, fili metallici, giornali e tele cerate. Questi nuovi materiali venivano impiegati sia per le loro potenzialità compositive - papier collées e collages hanno infatti la proprietà di creare delle tensioni spaziali inedite - sia per il loro potenziale critico nei confronti del carattere aulico della pittura, essendo privi di qualunque valore estetico.

La scelta di servirsi di una umile corda "in carne e ossa" per delimitare lo spazio della rappresentazione cubista dal mondo della realtà pone subito in primo piano i termini della moderna discussione intorno ai limiti della rappresentazione pittorica e della legittimità della separazione tra quest'ultima e la realtà.

La corda reale annuncia la nuova funzione attribuita dal cubismo alla cornice: non solamente un limite esterno del dipinto, bensì un veicolo della "intensificazione plastica nella tridimensione" (Celant).

Questa corda, allo stesso tempo elemento concreto e segno astratto ha la funzione di far fondere insieme il limite materiale e il limite concettuale della pittura.

All'interno di una concezione teorica della rappresentazione fortemente anti-preziosa, anti-mimetica e anti-illusionistica anche l'ovale della cornice, formato ampiamente utilizzato da Braque e Picasso, serve a sottolineare la distanza dell'opera dalla tradizionale funzione imitativa dell'arte e a connotare la pittura cubista di una sistematica intenzionalità critica nei confronti del concetto rinascimentale di quadro come "finestra aperta sul mondo".

Aderendo perfettamente ai contorni dell'oggetto rappresentato, la cornice surrealista si fonde e si sagoma con la corposità stessa dell'immagine, ne diventa un prolungamento corporeo, una vestizione perfettamente calzante.

La pratica della sagomatura è utilizzata per scardinare la funzione principale della cornice come punto di cesura e separazione tra lo spazio reale (esterno) e i confini (interni) della rappresentazione. Le sue due modalità principali sono l'imbordement ovvero l'eccesso di spazio rispetto all'enunciato rappresentato e il debordement, o smarginamento, in cui la figura, occupando interamente il campo di fondo dell'immagine, finisce per debordare dai margini ristretti dello spazio figurativo (cfr. Groupe m., cit., p. 121).

Dalì, Coppia con la testa piena di nuvole 1936

Magritte, La rappresentazione, 1937

Nel dipinto di Dalí le sagome vuote dell'uomo e della donna hanno la funzione di incorniciare un frammento di paesaggio desertico. Il recupero dell'accezione tradizionale della cornice come finestra aperta sul mondo è tuttavia solo apparente: viene infatti smentito dal sovvertimento della tradizionale gerarchia tra sfondo (il contenitore inquadrante) e figura (il contenuto inquadrato).

Nel quadro di Magritte, la spessa bordura che delimita il campo della rappresentazione, aderendo perfettamente al corpo dell'oggetto rappresentato, interrompe la dialettica abituale tra sfondo e figura in una direzione opposta a Dalì: alla trasparenza e attraversabilità del vuoto si sostituiscono la consistenza e l'opacità del pieno. Lo spazio di abitazione della figura viene negato in funzione di un raddoppiamento del margine (i contorni del bacino e la cornice a esso aderente).

La cornice perde la sua funzione di "soglia" per divenire parte integrante del corpo dell'immagine: essa non è più un elemento "accessorio" e decorativo, investibile di una visione marginale, bensì si propone come uno strumento capace di dare consistenza reale all'immagine e ai suoi confini.

C. La problematizzazione dello spazio pittorico

Recuperando la pratica secentesca della riflessione metapittorica sull'immagine condotta all'interno della pittura stessa, il cubismo fa della natura morta il veicolo della riformulazione dei codici rappresentativi esistenti e il banco di prova del nuovo statuto da assegnare all'immagine.

La ricerca di un'inedita formulazione dello spazio pittorico e il superamento dei principi di somiglianza e adeguazione al reale, sui quali era stata fondata la concezione rappresentativa e l'intera tradizione artistica dell'Occidente, porta i cubisti a dirigere la propria attenzione sulla funzione non imitativa degli elementi pittorici e a concentrarsi su un sistema spaziale non illusionistico: tale sistema non si avvale di un procedimento costruttivo determinato a priori bensì costruisce lo spazio di abitabilità dell'immagine insieme alla genesi formale della figura. All'interno della riflessione cubista, lo spazio perde quindi la funzione tradizionale di contenitore vuoto o di "cornice ambientale" dell'oggetto raffigurato per fondersi con i contorni dei corpi degli oggetti, dando origine a un unitario e organico organismo plastico.

Braque, La mandore

Grazie a una concezione "tattile" dello spazio, inteso come "pieno" articolato dalle tensioni ritmico-volumetriche dei corpi, Braque arriva a strutturare le coordinate spaziali del dipinto attraverso la fusione (La mandore, 1911) e, successivamente, la giustapposizione (Clarinetto, 1913) dei diversi piani dell'oggetto.

Questa particolare interpretazione dello spazio pittorico, soprattutto nella fase del cubismo sintetico, garantisce la percezione dell'immagine cubista come oggetto avente lo stesso statuto di realtà di una cosa "in carne e ossa". Il carattere bidimensionale dell'immagine, mosso al suo interno dalla concentrazione centripeta o dallo sgretolamento centrifugo del volume dei corpi e dalla presenza di differenti piani di strutturazione dell'opera (articolati attraverso l'inserimento di carte da parati, caratteri tipografici, giornali ecc.) consente ai pittori la presentazione di un oggetto a più dimensioni senza il rischio di ricadere nell'illusionismo prospettico.

Per i cubisti dunque, la cornice svolgeva una funzione importante nella percezione della struttura spaziale dell'immagine, agendo direttamente sulle modalità di ricezione dello spazio pittorico. È lo stesso Braque a fare chiarezza sul ruolo della cornice all'interno della sua opera: "Fino a che mi concentravo sul primo piano mi occorrevano delle cornici in profondità che mi aiutassero a creare movimento; cominciando in seguito a lavorare dal fondo, mi avvicinavo a poco a poco facendo uso di cornici in scorcio (en fuite), che fanno avanzare la tela" (J. Paulhan, Braque. Le patron, Parigi 1952).

Braque, Il clarinetto

Il progressivo assottigliamento delle dimensioni delle cornici cubiste, ridotte a sottili listelle di legno (baguette) aventi la funzione di proteggere la tela dagli urti e dall'usura, è anch'esso una diretta conseguenza della volontà cubista di conferire all'immagine pittorica lo stesso statuto di realtà di un oggetto reale e di sancire la piena autonomia della pittura e delle sue leggi da qualsiasi referente a essa esterno. Gli artisti aboliscono il concetto di cornice ornamentale per sostituirvi un utilizzo della cornice come segno iconico, indice e vettore dei differenti piani in cui si articola il dipinto. In molti casi la cornice viene "integrata" nell'immagine pittorica, oppure "richiamata" attraverso lo stratagemma del papier collé in finto legno. Giocando con i limiti della rappresentazione pittorica, attraverso la loro integrazione "per analogia" all'interno dello spazio dell'opera, i cubisti non si propongono tuttavia l'abolizione del concetto stesso di limite bensì lavorano per ridefinirne il ruolo e lo statuto in direzione anti-illusionistica (Cfr. M. Charrière, Le cadre et le cubisme, in Le cadre et le socle, cit., pp. 50-53).

3. Il contesto

 

Rinunciare alla cornice non è necessariamente il segno che l'opera d'arte si senta abbastanza forte per non averne più alcun bisogno. Poiché è chiaro che se l'ornamento indica l'insufficienza della cosa che è ornata, questa accetterà di denudarsi per apparire autosufficiente. Si tratta della nuova illusione dell'arte: il muro e lo spazio del museo, i discorsi dei critici le assicurano largamente la cornice che la rende autonoma (J-C. Lebenszteijn, op. cit., p. 19).

 

Il contesto implica l'ampliamento e l'esasperazione del concetto tradizionale di cornice come involucro, soglia e linea di demarcazione tra spazio interno ed esterno all'immagine pittorica o, più in generale, all'opera d'arte.

Tale allargamento si sviluppa entro gli estremi del superamento della distinzione tra "limiti della pittura" e "limiti della scultura", dell'abitazione dello spazio architettonico (parete, sala, edificio, museo) e territoriale (land art), fino all'integrazione del pubblico come attore determinante dell'evento artistico.

Nel momento in cui gli artisti si concentrano sui valori non-mimetici e sull'iconicità della rappresentazione e abbandonano una concezione "in profondità" dello spazio pittorico, attraverso i meccanismi della "resa in superficie dell'immagine", la cornice sembra divenire sempre più superflua nella pratica della costruzione dell'immagine. Questa superfluità crescente apre le porte a un "allargamento" del termine cornice e delle sue figure più rappresentative e pone le condizioni per la formulazione di nuove domande indispensabili intorno allo statuto e alla legittimità delle odierne e future "azioni" dell'incorniciare.

A partire dal cubismo, il Novecento inaugura una pratica di "occultamento" della cornice attraverso i meccanismi della sparizione per assottigliamento della linea di cesura tra l'interno e l'esterno della rappresentazione (cubismo analitico, alcuni lavori di Magritte) o, all'opposto, del misconoscimento di funzione per "eccesso di sottolineatura" (papiers collés, collages, assemblaggi, altri lavori di Magritte).

Questo meccanismo di enfatizzazione della cornice a scapito del suo enunciato porterà alla negazione o sparizione di quest'ultimo negli imballaggi di Christo (come l'impacchettamento del Museum of Contemporary Art di Chicago nel 1969) e nei lavori di Pascali (Cornice di fieno, 1967) oppure nelle opere di Klein (Il vuoto, 1958, New York, galleria Iris Clert) e, per contrasto, di Arman (Il pieno, 1960, New York, galleria Iris Clert). Al contrario, le opere della Land Art (Oppenheim, Dibbets, Heizer, De Maria) sembrano proporsi come esempi di valorizzazione dell'enunciato attraverso la totale soppressione o l'aggredimento antagonistico della cesura tra interno ed esterno della rappresentazione. Tali opere hanno la finalità di abolire la stessa istituzione museale mettendone in discussione lo statuto rappresentativo e le sue principali funzioni: valorizzazione, conservazione, legittimazione, delimitazione.

 

Bibliografia

- AA.VV., Le cadre et le socle dans l'art du 20ème siècle, Dijon, Université de Bourgogne-Paris, Musée national d'art moderne, 1987.

- G. Celant, Il limite svelato. Artista, cornice, pubblico, Electa, Milano 1981.

- Ernst H. Gombrich, Il senso dell'ordine, Leonardo Arte, Milano 2000

- Groupe m , Sémiotique et rhétorique du cadre, in Topologie de l'énonciacion, "La part de l'œil", n. 5 Bruxelles 1989

- J-C. Lebenszteijn , A partir du cadre, in Le cadre et le socle dans l'art du xxème siècle, Dijon, Université de Bourgogne-Paris, Musée National d'Art Moderne, 1987

- V. I. Stoichita., L'invenzione del quadro. Arte, artefici e artifici nella pittura europea, il Saggiatore, Milano 1998.


Le parole della filosofia, III, 2000

Seminario di filosofia dell'immagine


Torna a inizio pagina

Vai a Spazio filosofico

Torna al frontespizio della Rivista

Vai alla pagina del Seminario di filosofia dell'immagine