2 - Dufrenne e la fenomenologia

 

 

Il pensiero di Alain è più volte venuto alla luce nelle varie parti di questo lavoro, quasi a significare che la sua opera, altamente antisistematica, rifiuta qualsiasi schematizzazione o riduzione: Alain rappresenta, per generazioni di filosofi francesi, la forza stessa di un pensiero innovatore, pensiero che, pur rimanendo apparentemente isolato in una sorta di «equilibrio classico»[45], riesce in realtà a formare i multipli interessi di quei giovani studiosi che l'avevano conosciuto nella sua qualità di insegnante al liceo Henri IV. Come scrive lo stesso Dufrenne, «la nostra generazione ha raccolto l'eredità del razionalismo classico: attraverso l'insegnamento di Brunschvicg e di Alain ha iniziato un dibattito tra il dogmatismo spinoziano ed il criticismo kantiano»[46].

In questo senso D. Formaggio ha colto in Dufrenne e in tutta la cultura francese a lui contemporanea la costante presenza di un Alain «venerato e fecondo, maestro di fenomenologia senza binari fenomenologici e fuori dalle scuole, di una fenomenologia vivente e penetrante, capace di riscoprire i significati più autentici dell'arte nel corpo vivente dell'esperienza; infine un maestro che 'vedendo' insegna a vedere, un ricercatore immediato, propagatore di un sapere vivo e non libresco»[47]. La sua stessa estetica è, come dirà Dufrenne, un'estetica «del muratore», che, come in Delacroix, è attenta al concreto farsi dell'arte, all'artista-artigiano capace di plasmare l'immaginazione in un oggetto, in un'opera di arte «bella», attraverso il movimento del suo corpo, attraverso la potenza conoscitiva del corpo in movimento, a partire dal quale si forma un sistema che Alain stesso inconsapevolmente sgretola nella ricchezza delle sue infinite articolazioni nella natura circostante in perpetuo divenire e mutamento.

Inoltre in Alain, per Dufrenne e per lo stesso Sartre, si verifica una nuova interpretazione di Spinoza e Kant. Uno Spinoza «deteologizzato» ma acuto interprete del principio monistico della Natura naturante, dell'impensabile e dell'unione rinnovata fra l'uomo e il mondo. Mondo che il soggetto dovrà descrivere e interpretare ricercando quei segni che stabiliscono l'accordo fra i due elementi: e questi segni li propone l'apriori «nella misura in cui costruisce insieme il soggetto e l'oggetto»[48]. Attraverso l'a priori ci si inserisce dunque all'interno di una problematica kantiana, il cui dualismo di fondo viene limitato considerando l'a priori stesso nella sua funzione costituente che, nell'oggetto, rende possibile l'esperienza. Il pensiero coglierà così un senso «secondo» che si fonda su un senso «primo» direttamente offerto dall'oggetto: se l'esperienza è possibile, scrive Dufrenne, «e perché questo senso abita le cose, e l'uomo gli è immediatamente accordato: perché l'a priori è insieme per le cose un modo di rivelarsi all'uomo e per l'uomo un modo di aprirsi alle cose»[49].

L'insegnamento di Kant è peraltro accettato anche sul piano più propriamente estetico. La riflessione estetica contemporanea, secondo Dufrenne, si impegna infatti su due vie, una filosofia del bello e una filosofia dell'arte, che hanno la loro origine rispettivamente in Kant e in Hegel e sono punto di partenza, in Germania, per una Aesthetik soggettivista e per l'oggettivista Kunstlehre. Pur senza radicalizzare tale scissione, Dufrenne inserisce il proprio pensiero, distinguendosi in parte dai suoi predecessori francesi e dal suo stesso maestro Bayer, all'interno dell'estetica soggettivista di matrice kantiana, dell'Aesthetik. Scrive infatti: «Questa estetica può essere rappresentata prioritariamente dalla fenomenologia e, di fatto, il nostro proposito è implicitamente fenomenologico»[50]. «Implicitamente» perché è difficile identificare i presupposti e le modalità del pensiero di Dufrenne con quelli presenti in Husserl; ma anche perché la fenomenologia, in Francia, non ha mai assunto caratteri di ripetitività dogmatica di un pensiero già codificato e ha cercato piuttosto di inserirsi senza traumi all'interno di una tradizione di pensiero che già comprendeva il razionalismo, il positivismo, lo spiritualismo, oltre che le analisi bergsoniane. D'altra parte, come scrive Merleau-Ponty, la fenomenologia «è laboriosa come l'opera di Balzac, quella di Proust, quella di Valéry o quella di Cezanne per lo stesso genere di attenzione e di stupore, per la stessa esigenza di coscienza, per la stessa volontà di cogliere il senso del mondo e della storia allo stato nascente»[51].

In Francia, dunque, come nota Ricoeur, «la fenomenologia è, in buona parte, la storia delle eresie husserliane»[52], eresie che Dufrenne ammette esplicitamente quando dichiara, in apertura alla sua Phénoménologie de l'expérience esthétique del 1953, che «non ci costringeremo a seguire Husserl alla lettera. Intendiamo la fenomenologia nel senso in cui Sartre e Merleau-Ponty hanno acclimatato questo termine in Francia: descrizione che ha di mira un'essenza, a sua volta definita come significato immanente al fenomeno e dato con questo»[53]. Infatti la presenza di Husserl in Dufrenne è rilevante soprattutto a livello metodologico-generale poiché del pensiero husserliano egli accoglie pienamente solo l'istanza anti-psicologista e, nelle loro grandi linee, la teoria dell'intenzionalità, la fenomenologia della percezione e la teoria degli a priori.

Husserl inoltre, con particolare riferimento alle sue ultime opere, è spesso accusato, da Dufrenne come da Merleau-Ponty, di «idealismo» a causa dell'eccessivo rilievo che avrebbe dato all'attività costituente del soggetto a discapito dell'oggetto, che sarebbe cosi ridotto a mera costruzione della soggettività trascendentale. D'altra parte, la fenomenologia stessa di Dufrenne sembra non comprendere la radicale novità metodologica dell'io puro e della stessa epoché, tanto da rischiare di venire viziata, «oltre che da un gratuito evidenzialismo necessariamente metaempirico e metafenomenologico, anche dal fatto che essa finisce col risolversi in una vera e propria indagine comportamentistica che (...) non ha più nulla a che fare, dato il suo carattere 'osservativo', con la fenomenologia intesa nella sua specificità» e tende invece a identificarsi «con la psicologia sperimentale»[54]. Mentre Husserl ha più volte affermato che «la fenomenologia è tutto salvo che una psicologia meramente descrittiva» o «una dottrina empirico-descrittiva delle essenze» in quanto può essere considerata come «lo studio delle possibilità ideali degli Erlebnisse» [55].

Non ha tuttavia grande significato confutare qui le posizioni di Dufrenne rifacendosi a una supposta «ortodossia» che Dufrenne stesso non ha mai dichiarato di voler seguire. Infatti, sia che si veda la sua estetica completamente estranea al pensiero di Husserl, sia che la si consideri «fedele al progetto husserliano» pur in un libero uso del suo apparato concettuale, va notato che «Dufrenne si muove in una direzione che ha le sue origini in una formazione culturale tipicamente francese»[56], formazione che comprende sia l'intera tradizione dell'estetica, sia le interpretazioni della fenomenologia e dell'esistenzialismo contenute nell'opera di Merleau-Ponty, opera che insiste «sulla necessità di una fenomenologia che ritorni continuamente sui propri momenti costitutivi, che ricomprenda la propria genesi e le proprie linee di sviluppo»[57].

È questo infatti il punto che affascina Dufrenne e che lo conduce molto vicino al pensiero di Merleau-Ponty, così vicino che, nel saggio scritto in occasione della sua morte, si ha quasi l'impressione che voglia sviluppare l'opera dell'amico per dire 'quell'ultima parola' che, a causa della prematura scomparsa, egli non potè pronunciare.

Dufrenne ritiene infatti che Merleau-Ponty si stesse rivolgendo a una filosofia della Natura, considerata come «la carne, la madre»[58]. Nei suoi ultimi scritti, in particolare Il filosofo e la sua ombra e Il visibile e l'in visibile, si può infatti notare in Merleau-Ponty l'accostarsi alla problematica della Natura, una Natura osservata «nel suo movimento verso l'uomo, insieme percepito e percipiente, esprimentesi nell'uomo e attraverso l'uomo»[59]. L'ontologia che Merleau-Ponty abbozza nel suo ultimo frammentario lavoro è infatti sempre legata a una problematica antropologica:

«Questo mondo, questo Essere, fatticità e idealità indivise (...), non è niente di misterioso: è in esso che abitano, a prescindere da ciò che ne diciamo, la nostra vita, la nostra scienza e la nostra filosofia»[60].

Il visibile, ciò che appare alla nostra percezione, «e superficie di una profondità inesauribile», profondità che impone alla filosofia contemporanea un ritorno all'ontologia e allo studio di problemi che saranno di centrale importanza anche nel pensiero di Dufrenne, ovvero «il problema soggetto-oggetto, il problema dell'intersoggettività, il problema della Natura»[61]. Si tratta dunque, per MerleauPonty, «di trovare nel presente la carne del mondo (e non nel passato)», un «sempre di nuovo» e «un sempre lo stesso», un sensibile e una Natura che trascendano «le distinzioni passato-presente» e realizzino «un passaggio dal di dentro dell'uno nell'altro» [62]rendendo così possibile una «psicanalisi della Natura», vista come «l'altro lato dell'uomo», sua carne ad esso consustanziale.

A Merleau-Ponty, secondo Dufrenne, restava ancora da legare «l'idea di Natura all'idea di fondamento, come l'a priori di ogni a priori e cogliere la nascita del dualismo e la metamorfosi dell'uomo e del mondo alla radice stessa del monismo»[63]. Temi che, anche a prescindere dall'ipotesi di «identificazione postuma», percorreranno l'intera filosofia di Dufrenne e si porranno in un contesto dove appare centrale la percezione - «sfondo sul quale si staccano tutti gli atti» - e il contatto corporeo che essa istituisce con il mondo, che «non è ciò che io penso, ma ciò che io vivo io sono aperto al mondo, comunico indubitabilmente con esso ma non lo posseggo, esso è inesauribile»[64]. La soggettività, per Merleau-Ponty come per Dufrenne (così com'era per Alain), non è invulnerabile al di qua dell'essere e del tempo, al di fuori del mondo, ma è una realtà corporea sempre inserita nel suo «essere al mondo»: il corpo è il veicolo stesso dell'essere al mondo «e per un vivente avere un corpo significa unirsi a un ambiente definito, confondersi con certi progetti e impegnarvisi continuamente»; il corpo è il perno del mondo, profondamente inserito nel movimento dell'esistenza, nella sua stessa struttura temporale, nella realtà complessa dei campi di esperienza dove si instaura l'unità chiasmatica del soggetto e dell'oggetto[65].

Accogliendo pienamente le teorie di Merleau-Ponty - e risentendo, attraverso la sua opera e quella di Sartre, della filosofia di Heidegger - Dufrenne modifica sostanzialmente la teoria husserliana dell'intenzionalità affermando che

«la riduzione non culmina più nella scoperta di una coscienza costitutiva, ma nella scoperta della propria impossibilità; sforzarsi di sospendere la tesi del mondo, di rinunciare all'atteggiamento naturale e al suo realismo spontaneo è sperimentare che non si può farlo, che nessuno può astrarsi dal mondo in cui è, e che il rapporto col mondo quale lo vive in modo irriflesso la percezione, è sempre già dato: e la intenzionalità è quel progetto, sempre ripreso, attraverso il quale la coscienza concorda con l'oggetto prima di qualsiasi riflessione»[66].

Potremo dunque dire, si domanda Dufrenne ponendo problemi ricchi di impliciti richiami ad Alain e Merleau-Ponty,

«che lo spirito è attivo senza che lo sia il corpo, senza che l'occhio non si faccia agile per seguire gli itinerari che il dipinto propone alla sua lettura, senza che i muscoli abbozzino dei movimenti per seguire il ritmo della musica nello stesso tempo che le orecchie si aprono, senza che il corpo intero giri intorno alla scultura per seguire il gioco multiplo dei volumi?»[67].

La risposta, ovviamente negativa, a questa domanda consente di comprendere i profondi legami fra Dufrenne, l'estetica francese e la fenomenologia di Merleau-Ponty, legami che «storicizzano» la sua posizione teorica e permettono di considerarla, in un certo senso, come il compimento di alcune posizioni che, a causa di residui positivisti o spiritualisti, non trovavano in precedenza una soddisfacente giustificazione sul piano dell'analisi concettuale. L'opera di Dufrenne, tuttavia, a differenza di quella di molti autori che l'hanno preceduto, non si esaurisce affatto nel contesto culturale francese ma possiede anzi il merito di porre il dibattito estetico, pur accettando la propria tradizione di pensiero, in un contesto filosofico più ampio, nel movimento stesso della filosofia del nostro secolo, dalla fenomenologia all'esistenzialismo, dalla scuola di Francoforte allo strutturalismo. Inoltre, il pensiero di Dufrenne costituisce un capitolo fondamentale di quella corrente passata alla storia con il nome di «estetica fenomenologica», che tenta di inserire nel contesto del pensiero husserliano i problemi fondamentali dell'estetica e, in primo luogo, la questione relativa alla costituzione dell'oggetto estetico, alla sua realtà essenziale, al suo valore specifico. Problema che, in differenti modalità, occupa W. Conrad, R. Ingarden e lo stesso Husserl (sia pure marginalmente) e al quale Dufrenne darà, nella prima iniziale parte della Phénomenologie de l'expérience esthétique, una nuova risoluzione, in cui l'oggetto non appare più come una realtà ideale, quasi sostanzialmente separata dal comune oggetto percepito, ma come un «valore» che si riempie di contenuti sulla base del percepito stesso e che solo nella percezione acquista il suo pieno significato, il suo vero e proprio «riempimento», la sua fondazione, la Stiftung di cui parlava Husserl e che indica, a parere di Merleau-Ponty,

«l'illimitata fecondità di ogni presente che, proprio perché è singolare e passa, non potrà mai cessare di esser stato e quindi di essere universalmente - ma soprattutto quella dei prodotti della cultura che continuano a valere dopo la loro apparizione e aprono un campo di ricerche in cui rivivono perpetuamente»[68].

La critica che Dufrenne rivolgerà a Conrad sarà quindi quella di avere idealizzato l'oggetto estetico limitandosi a fare di esso la norma della percezione senza costruirgli intorno una vera e propria fenomenologia della percezione estetica capace di coglierne, nel «dialettico» confronto con la percezione comune, la specificità e la peculiarità «instaurativa».

 

Note

[45] L'espressione è di S. Solmi, Il pensiero di Alain, Pisa, Nistri-Lischi, 1976, p. 90.

[46] M. Dufrenne, Jalons, L'Aia, Nijhoff, 1966. p. 2.

[47] D. Formaggio, L'idea di artisticità, Milano, Ceschina, 1962, p. 260. Scrive Alain, Venti lezioni sulle Belle arti, Roma, 1953, p. 173: «Tutte le arti sono come specchi in cui l'uomo vien conoscendo e riconoscendo qualche cosa di sé che ignorava».

[48] M. Dufrenne, Jalons, cit., p. 27.

[49] Ibid., pp. 18-9.

[50] M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, tome II, Paris, Klincksieck, 1976, p. 28.

[51] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 31.

[52] P. Ricoeur, in «Esprit», 1953, n. 2, p. 836.

[53] M. Dufrenne, Fenomenologia dell'esperienza estetica, Roma, Lerici, 1969, p. 447. Solo il primo volume della Phénoménologie de l'expérience esthdtique è stato tradotto in italiano.

[54] G. De Crescenzo, Disegno di estetica. Saggio fenomenologico, Napoli, Esi, 1960, p. 143.

[55] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro III, Torino, Einaudi, 1976, p. 847. A Dufrenne in realtà non interessa la riduzione eidetica operata da Husserl. Ciò forse è dovuto anche all'obiettiva difficoltà a operare una riduzione relativa a nozioni inguaribilmente empiriche come quella di pubblico. Inoltre la riduzione eidetica è uno strumento metodologico correlato a una soggettività «disinteressata» quando invece il soggetto è per Dufrenne «sempre nel mondo».

[56] La prima citazione è tratta da R. Bayer, L'esthétique mondiale au XX siècle, Paris P.U.F., 1961, p. 96; la seconda da D. Formaggio, L'idea di artisticità, cit., p. 266.

[57] A. Bonomi, Introduzione a Merleau-Ponty, Segni, Milano, Il Saggiatore, 1967, p.7.

[58] M. Dufrenne, Jalons, cit., p. 217.

[59] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'in visibile, Milano, Bompiani, 1969, p. 140.

[60] Ibid., p. 170.

[61] Ibid., p. 197

[62] Ibid., p. 301.

[63] M. Dufrenne, Jalons, cit., p. 217.

[64] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, cit., p. 25.

[65] Ibid., p. 194.

[66] M. Dufrenne, Fenomenologia dell'esperienza estetica, cit., p. 510.

[67] M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, tome II, cit., p. 24.

[68] M. Merleau-Ponty, Segni, cit., p. 86. Dufrenne dedica ampie parti della Fenomenologia dell'esperienza estetica alla discussione dell'estetica fenomenologica di Waldemar Conrad e Roman Ingarden, criticando nel primo l'assenza di ricerche di fenomenologia costitutiva fondata sulla percezione e nel secondo la nozione di pura intenzionalità rivolta nei confronti dell'opera d'arte, che fa di essa un mero «irreale». Per un'approfondita analisi della prima estetica fenomenologica si veda G. Scaramuzza, Le origini dell'estetica fenomenologica, Padova, Antenore, 1976. Per comprendere come la costituzione dell'oggetto estetico implichi in Ingarden una riduzione operata attraverso uno strumento psicologico, chiamato «emozione preliminare», si veda E.Migliorini Critica, oggetto e logica, Firenze, Fiorino, 1968.