3. La fenomenologia dell'oggetto estetico

 

 

L'opera di Dufrenne è ricca, oltre che di interne prospettive, di significati coinvolti all'origine con il senso del pensiero contemporaneo, coinvolgimenti che contribuiscono a creare intorno al suo pensiero un alone di «ambiguità» che Dufrenne stesso non solo non rifiuta ma cerca anzi di riaffermare per portare a compimento in senso estetico quella «filosofia dell'ambiguità» che, secondo la nota definizione di De Waelhens, era la fenomenologia di Merleau-Ponty. In un quadro così multiforme, dove appaiono numerosi richiami alla tradizione dell'estetica francese, vi è tuttavia un tema di fondo unitario rappresentato dalla tensione etica che anima tutto il suo lavoro, tensione etica che gli fa cogliere il centro di ogni meditazione filosofica nell'uomo: il fine della filosofia è di essere «per l'uomo», contro quelle ideologie e tecnologie contemporanee che vogliono privarlo della sua capacità creativa, eliminando così il senso stesso della sua vita. Siamo quindi nello spirito, se non nella lettera, dell'Husserl della Crisi delle scienze europee, là dove si vuole ritrovare quel «senso dell'umanità» che l'obiettivismo moderno ha occultato. Se, a questo proposito, Husserl non disdegna il richiamo alla metafisica quale «scienza delle questioni ultime e supreme», anche Dufrenne, e ben più decisamente, si volgerà al pensiero metafisico. Infatti,

«se si denuncia l'ideologia della fisica come scienza positiva, perché vietarsi la metafisica? Essa sta al pensiero concettuale come la pratica artistica Sta alla pratica utilitaria; finché non si dogmatizza, essa è la poesia del pensiero. Sono solo le sue espressioni para o pseudo scientifiche, autoritarie, che vanno relegate nel Museo degli Antichi»[69].

L'estetica fornirà dunque i necessari prolegomeni a questa metafisica non dogmatica che coglierà le possibilità intrinseche alla Natura e all'uomo che, sin dalle prime opere non estetiche di Dufrenne, appare il punto di partenza e di arrivo della sua meditazione filosofica[70]. La stessa opera d'arte acquista il suo valore espressivo presentandosi come «quasi soggetto» che è origine di un suo proprio mondo specifico che suscita un sentimento presso il pubblico cui si offre. L'estetica di Dufrenne si presenta infatti, almeno nelle sue prime opere, come un'estetica «dello spettatore», attenta cioè alla «consacrazione» da parte del pubblico di un'opera d'arte che si offre alla sua percezione; un'estetica, di conseguenza, indirizzata a mettere fra parentesi, anche se non a escludere in modo assoluto, il creatore dell'opera[71]. Infatti una riflessione sull'arte come attività creatrice comprenderebbe, più che una metafisica instaurativa simile a quella di Souriau, il richiamo alla sociologia, all'antropologia e alla storia dell'arte, prospettive che Dufrenne vuole categoricamente evitare. Senza dubbio, come Dufrenne stesso ammetterà in un saggio degli anni '70[72], il concetto di pubblico «non diventa oggetto di un trattamento scientifico che con l'avvento della sociologia, dopo che la tecnica delle inchieste e il calcolo statistico permettono di discernere e di qualificare dei pubblici determinati entro il pubblico in generale». Inoltre si riconosce che «la costituzione e il comportamento dei pubblici sono sotto le dipendenze della cultura e delle sottoculture proprie ai gruppi o alle classi sociali». Queste prospettive sono tuttavia volontariamente messe da lato e non approfondite: il pubblico, per l'estetica, sarà solo un ricettore da cui l'oggetto esige d'essere percepito. Sarà il correlato noetico, soggettivo, del rapporto intenzionale con l'oggetto noematico, relazione che non deve essere inficiata o relativizzata da considerazioni che potranno integrare il concetto solo al di fuori dell'ambito specifico dell'estetica.

Quindi «lo spettatore non è solo il testimone che consacra l'opera, è a suo modo l'esecutore che la compie; per apparire l'oggetto estetico ha bisogno di lui»[73]. Il problema estetico è tutto rinchiuso nel porsi del soggetto di fronte all'oggetto: l'esperienza estetica è la descrizione dello sviluppo del procedimento percettivo che da questo incontro scaturisce. Viene così considerato «estetico» ogni oggetto «che sia estetizzato da una qualunque esperienza estetica»,[74].

Oltre ai limiti intrinseci alla relatività (e al relativismo) di una non meglio definita nozione di «pubblico», che non è comunque, a parer nostro, identificabile con un polo soggettivo costituente, è chiaro il pericolo «psicologistico» implicito in una nozione che non viene affatto da Dufrenne costituita come una comunità intersoggettiva delle persone fondantesi su reciproche motivazioni «spirituali»: è invece una nozione «ingenua» che rischia, come si è da più parti notato, di inficiare alla radice il discorso di Dufrenne, anche se, pur mantenendo un'impostazione ambiguamente soggettivista, è in verità l'oggetto ad assumere una prima rilevanza centrale[75].

L'oggetto estetico, secondo la tradizione, è per Dufrenne l'oggetto «bello», ma solo se con «bello», nozione «pericolosa» e carica di antiche ambiguità, si intende «la pienezza immediatamente provata dalla percezione dell'essere percepito», «l'apogeo del sensibile, l'adeguazione totale del sensibile al senso»[76]. Oggetto, dunque, che è sempre necessariamente correlato alla percezione soggettiva che in esso si definisce, e che solo l'astrazione analitica - in altri termini la necessità di comprenderne la genesi - potrà scindere nei suoi aspetti essenziali. Atteggiamento che, se può apparire come tipicamente fenomenologico, si era in realtà visto coscientemente operante già in Guastalla, Bayer e Souriau, autori tutti cui Dufrenne spesso si richiama e che, anche al di là di specifici rimandi testuali, sono ben presenti in tutto l'arco della sua opera. Non pochi, inoltre, sono qui gli spunti tratti da Malraux, in primo luogo lo stile discorsivo, il suo «continuo dialogo, scintillante e barocco, coi capolavori di tutte le epoche» nella coscienza che sulla tragedia della condition humaine possa elevarsi, «nel suo rigore e nella sua splendente purezza formale, l'opera d'arte»[77].

L'analisi dell'oggetto estetico di Dufrenne sembra infatti a volte riportarsi a radici pre-fenomenologiche o a-fenomenologiche poiché, come scrive D. Formaggio, «avviene nei modi di una descrizione più spesso empiristica (nel senso humeano) che fenomenologica. Senonché questo oscillare tra un piano di matters of facts e quella di una più rigorosa riduzione eidetica, nonché essere considerato lo spostamento su un piano metodologico diverso, può essere invece visto e giustificato come implicito a una instaurazione fenomenologica della ricerca nel suo stesso atto di porsi e di delinearsi». Ciò perché è difficile per l'arte essere ritrovata eideticamente «a colpo sicuro» in quanto la ricerca sulle sue manifestazioni «può correttamente essere intesa come un processo lento e complesso di distacco e di riconquista per gradi della visione originaria: distacco che sui dati di fatto appunto si viene progressivamente operando»[78].

Se infatti Dufrenne all'inizio del suo lavoro aveva dichiarato di. considerare la fenomenologia come una descrizione che ha di mira un essenza, dimentica, nel corso della Phénomenologie de l'expérience esthétique, le asserzioni metodologiche di partenza preferendo una ricerca genetica sull'oggetto che non disdegna modalità empiristiche sostenute da motivazioni psicologiche, tentando così un «lavoro di spola», piuttosto estraneo agli insegnamenti di Husserl, tra «un atteggiamento psicologico non ancora ben ridotto» e «una visione extra naturale e quindi extrapsicologica delle essenze (anche se appena accennata)»[79]. Siamo quindi in una «eidetica minima» sempre legata all'esperienza e ai dati di fatto, che, se permette a Dufrenne una certa «libertà d'azione», tuttavia non gli consente di utilizzare la riduzione fenomenologica in tutta la sua radicalità, sia in relazione al problema della soggettività sia in riferimento al suo rapporto con gli orizzonti tematici del mondo circostante.

Dufrenne rischia così di ricadere in quello che Husserl chiamava «l'errore di principio dell'argomentazione empiristica» che consiste «nell'identificare o scambiare la fondamentale esigenza di un ritorno alle 'cose stesse'. È con l'esigenza di ridurre all' 'esperienza' ogni fondazione della conoscenza»[80].

L'estetica di Dufrenne ha tuttavia il merito primario di essere sempre rimasta legata all'esteticità intrinseca alla percezione senza alcun intento definitorio o sistematizzante, che pure non era estraneo alla tradizione estetica francese. Il punto di partenza della Phénoménologie de l'expérience esthétique è il riconoscimento del necessario criterio secondo il quale considerare alcune opere come autenticamente artistiche, opere che abbiano cioè il diritto di divenire per noi oggetti estetici. Dufrenne considera dunque opera d'arte «tutto ciò che è riconosciuto come tale, e come tale proposto al nostro assenso»: «spingeremo all'estremo l'empirismo, come fa Aristotele per la definizione della virtù, e concorderemo con l'opinione dei migliori, che è anche in ultima analisi l'opinione comune, l'opinione di tutti quelli che hanno un'opinione»[81]. Oggetto dell'estetica, per lo spettatore, sono le opere d'arte unanimemente consacrate, le sole che, con certezza, potranno condurci all'oggetto estetico e all'esperienza estetica.

Per conoscere un'opera storicamente ritenuta «artistica» è infatti necessario che essa venga presentata alla mia percezione, che divenga per me «oggetto estetico», ovvero oggetto percepito da uno spettatore «delegato dell'Umanità»[82], vigile e attento, pronto a neutralizzare tutto ciò che potrebbe sviarlo da una «retta percezione», afferrando invece il senso immanente al sensibile, la sua interna e profonda organizzazione. Il senso si sprigiona dal percepito come ciò per cui il percepito è percepito e potrà lasciare spazio alla riflessione solo in un secondo momento poiché «ciò che mi dice, l'oggetto estetico lo dice con la sua presenza, in seno al percepito»[83]. L'oggetto estetico è il sensibile «nella sua gloria», il sensibile organizzato che esprimendosi dice se stesso, che si afferma come valore cosmologico.

L'opera d'arte, in una distinzione che ricorda solo a grandissime linee quella del Kunstwissenschaft di Dessoir, sarà dunque «ciò che rimane dell'oggetto estetico quando non è percepito, l'oggetto estetico allo stato di possibile che attende la propria epifania», possibilità permanente che può esistere nella sua pienezza solo ponendosi di fronte alla percezione dello spettatore, convertendosi cioè in oggetto estetico[84], passando da un'esistenza «potenziale» a un'esistenza «in atto», ovvero venendo «eseguito» o, come dice Ingarden, «concretizzato» di fronte a un pubblico reale.

Il primo livello dell'oggetto estetico è infatti, per Dufrenne, quello della sua «esecuzione», che verifica la qualità dell'opera o almeno mostra il libero gioco del sensibile - ovvero la sua qualità fondamentale dispiegata dall'esecutore -, che ne coglie la «verità», ciò che essa vuole essere quando si manifesta, «esigenza infinita che vuole una realizzazione finita, ed è realizzata ogni volta che l'opera ci è presente con sufficiente evidenza e rigore»[85]. In questa «esecuzione», che è comune anche alle arti «solitarie», come le chiamava Alain, della pittura e della scultura, l'opera ha bisogno del pubblico così come l'esecutore, un pubblico che la compie, la consacra e crea un «clima» che spinge verso la comprensione della sua profonda intimità. La presenza dell'oggetto ha infatti «qualcosa di assoluto» in cui il testimone non è uno spettatore puro ma un spettatore coinvolto nell'opera stessa, che penetra in essa, come voleva Merleau-Ponty, con il suo stesso corpo perché è da essa penetrato e avvolto in un sentimento di comunione reciproca che, sia pure su un piano oggettivo, ricorda L'Einfühlung o la simpatia simbolica di V.Basch.

Il pubblico diviene «gruppo» perché è di fronte a un oggetto estetico che, come «oggettività superiore», riunisce gli individui al di là delle loro differenze particolari. Il pubblico è così una comunità «reale» fondata sull «oggettività eminente dell'opera»: «l'oggettività dell'opera e l'esigenza che essa comporta impongono e garantiscono la realtà del legame sociale». Il pubblico appare quasi come l'umanità intera dove l'uomo trascende la propria singolarità ed è, attraverso l'oggetto estetico, riunito con altri uomini nella contemplazione estetica stessa; situazione che permette sin d'ora di comprendere l'ambiguità dello statuto dell'oggetto estetico, che è al tempo stesso per noi e in sé, dove tuttavia il «per noi» è, a parere di Dufrenne, solo una constatazione percettiva - o meglio una «vivificazione» che soltanto la percezione può donare - di ciò che l'opera d'arte è già in se stessa.

L'oggetto estetico, oltre che di fronte al pubblico, si pone nel mondo fra altri oggetti incontrati dalla percezione, oggetti che, se sono «estetici» in quanto percepiti, non hanno certo lo statuto di opera d'arte. L'oggetto estetico potrà così venire confrontato, per meglio coglierne, nelle differenze, lo statuto essenziale specifico, con le altre oggettualità presenti nel nostro mondo circostante, siano essi gli oggetti viventi, la cosa naturale, l'oggetto d'uso o l'oggetto significante del mondo culturale. Come questi oggetti, l'oggetto estetico vive nel mondo in contatto chiasmatico con la percezione soggettiva ma è tuttavia riempito da una serie di «contenuti» suoi propri che permettono di presentarlo come una totalità autonoma, un tutto unificato nella sua forma che è sintesi di sensibile e senso. La nostra percezione risente di questa specificità intrinseca all'oggetto stesso già storicamente riconosciuto «artistico» e, facendolo divenire un «per noi» estetico, «deve istituire per lui uno sfondo che gli sia proprio, quella zona di spazio o di tempo, di vuoto o di silenzio, che l'attenzione circoscrive come un 'aureola'»[86].

Il mondo reale non potrà certo venire abolito, poiché è il contesto sensibile in cui l'opera d'arte si offre alla percezione; ma, in esso, «l'oggetto estetico esercita un imperialismo sovrano: irrealizza il reale estetizzandolo»[87], si costituisce intenzionalizzando in senso estetico (e non idealizzando) i materiali stessi che si offrono alla percezione ed apparendo nel sensibile come il massimo livello di significato cui il sensibile stesso può aspirare, come «forma» compiuta che è la verità stessa della percezione estetica. Infatti Dufrenne scrive, con molti richiami ai suoi predecessori dell'estetica francese, che «la forma è quanto esiste di vero e di immutabile nell'oggetto estetico, a dispetto delle interpretazioni cui è soggetto, e per quanto abbia bisogno di quelle interpretazioni». Dunque «la forma è la verità dell'oggetto estetico; e ha quella qualità atemporale che è propria alla verità, la verità in quanto essere del vero, e non in quanto prodotto in una storia: perché bisogna anche che la verità appaia»[88].

L'apparire dell'essere, dell'essere della verità, se riconduce Dufrenne al «secondo» Heidegger e lo pone accanto a E. Souriau, allontana la genesi costitutiva dell'opera d'arte e dell'oggetto estetico dall'intersoggettività corporea e dalla sua verità, l'unica che può sussistere per la fenomenologia, una verità che non può mai apparire hic et nunc alla percezione ma che è un telos che le persone storiche ricercano attraverso varie strade, fra cui l'arte e i suoi prodotti, un orizzonte sfuggente che rimane attivo come compito infinito dell'intera, concreta intersoggettività umana. In altri termini: la percezione estetica non afferra la verità ma, sempre di nuovo, «costruisce» la verità nel tempo attraverso la materialità delle opere.

Il «per noi» dell'oggetto estetico, che lo pone nel nostro mondo, fra i nostri oggetti, nella nostra storia, non deve per Dufrenne far scordare che, grazie alla sua struttura ambigua, esso è nello stesso tempo un «per sé», che possiede un suo proprio mondo con una specifica struttura sensibile, che potrà essere afferrata e «riempita» solo attraverso atti percettivo-corporei che corrisponderanno agli strati ontici dell'oggetto estetico, che Dufrenne, per comodità espositiva, preferisce analizzare in via preliminare (anche se, come già si è notato, la relazione intenzionale imporrebbe l'inseparabilità di soggetto e oggetto).

Il primo livello di questa descrizione dell'oggetto estetico, che ricorda più l'analisi esistenziale di Souriau che la genesi husserliana della cosa, consiste nel mondo rappresentato dall'oggetto, mondo che possiede una sua «armatura» spazio-temporale che in qualche modo imita lo spazio e il tempo del mondo reale. Il mondo rappresentato dell'opera tuttavia, pur nella sua fondata esteticità, «non ci permette ancora di parlare di un mondo dell'opera come mondo originale e singolare» perché esso «non è ancora veramente un mondo», «non basta a se stesso, è indeterminato»[89].

Nell'opera si vedrà allora un «mondo espresso» nel quale si esprime la coscienza dell'artista e dal quale sorge il principio di unità insito nell'oggetto estetico. L'espressione fonda l'unità di un mondo singolare ed è il vero principio, per l'oggetto estetico, di un proprio spazio e di un proprio tempo come sue intrinseche qualità. Mondo espresso e rappresentato sono comunque fra loro strettamente correlati: «l'espresso è in qualche modo la possibilità del rappresentato, e il rappresentato la realtà dell'espresso»[90]. L'oggetto rappresentato, nella sua costituita presenza concreta, è simbolo, segno del significato che il mondo espresso porta alle dimensioni di un mondo.

Il mondo espresso è l'anima del mondo rappresentato, che è il suo corpo: la loro inscindibile unità costituisce la profondità stessa dell'oggetto estetico.

Questa essenziale capacità di espressione, dove l'oggetto trova la sua vera e propria «fondazione», è per Dufrenne l'elemento fondamentale attraverso il quale l'oggetto estetico può dirsi «quasi soggetto», prodotto «spirituale» che si pone su un piano paritetico con la soggettività personale cui si rapporta attraverso la percezione nel loro mondo circostante comune. Esprimere è per lui «trascendersi verso un significato che non è il significato esplicito assegnato alla rappresentazione, ma un significato più fondamentale che proietti un mondo»[91]. Dunque l'oggetto estetico è, come la soggettività, «all'origine di un proprio mondo irriducibile al mondo oggettivo»[92], mondo che potrà rivelarsi solo a una soggettività, che attraverso il sentimento, vertice della percezione estetica, riesca a penetrare la specificità soggettiva del mondo espresso.

L'oggetto estetico si Compie quindi soltanto attraverso la percezione, che non deve, come a parere di Dufrenne accade in Husserl, radicalizzare il contrasto fra «in sé» e «per sé» all'interno della teoria della costituzione, ma invece, seguendo Merleau-Ponty, rompere il dilemma invitando «a concepire tra soggetto e oggetto una relazione per cui l'uno sia soltanto attraverso l'altro, e il soggetto sia relativo all'oggetto allo stesso modo che l'oggetto è relativo al soggetto»[93]. La coscienza costitutiva non si porrà cosi «al di fuori» del mondo ma sarà sempre «nel» mondo, nel già dato, nella percezione come attività corporea, il cui campo si confonde con quello dell'oggetto.

Questo «riempimento» percettivo dell'oggetto estetico non deve tuttavia far scordare, così come vuole tutta la tradizione dell'estetica francese «scientifica», che esso è anche un'opera da contemplare, una «forma» che è intrinseca al sensibile stesso, in breve un'opera d'arte come «cosa privilegiata che regge l'oggetto estetico e si converte in esso durante la percezione»[94]. In questa descrizione dell'opera d'arte, oltre a un diffuso disagio di Dufrenne per l'artificiosa separazione dall'oggetto estetico, si ha una ripresa di vari elementi già contenuti in Souriau e Bayer e un sostanziale abbandono di qualsiasi atteggiamento fenomenologico. Vi è tuttavia da notare che Dufrenne non vuole qui, come Souriau, costruire un «sistema» delle arti o, come Bayer, rivelarne le categorie e gli aspetti: le sue indagini descrittive sono piuttosto un tentativo di concretizzare nel campo vivo delle arti quegli elementi della rappresentazione e dell'espressione che formano l'esteticità stessa dell'oggetto. E infatti Dufrenne introduce qui il problema dello statuto dell «oggetto musicale» attraverso le estetiche di B. de Schloezer e G. Brelet [95] proponendo come elementi strutturalmente formanti, al di là, ci sembra, della loro effettiva funzionalità tecnica nell'opera, l'armonia, il ritmo e la melodia. Quest'ultimo aspetto, che già Bergson aveva identificato con il «senso segreto» della durata, e il compimento dell'opera musicale, «ciò che appare nell'opera con una spontaneità irrecusabile quando ci si abbandona ad essa e la si lascia cantare»[96]. Il modello dell'opera musicale servirà a Dufrenne anche per la descrizione delle caratteristiche armoniche, ritmiche e melodiche della pittura: in entrambe le arti, così come accadeva per l'oggetto estetico, tali elementi strutturali disegneranno la realtà del suo mondo rappresentato e il significato profondo del mondo espresso.

L'analisi e quindi la descrizione dell'opera in quanto tale trovano però il proprio limite al livello dell'espressione, dove il significato dell'opera d'arte supera la loro capacità di comprensione rivelando una certa qualità sensibile che, se non è facile da tradurre nel discorso, è tuttavia distintamente avvertibile nella genesi della percezione estetica. D'altra parte, l'analisi ha avuto solo lo scopo di mostrare, rivelandone la struttura, l'«in sé» dell'oggetto estetico, il suo essere nello spazio. L'«in se» scaturisce poi, come visto, in un «per sé», in quel potere di esprimere che costituisce la sua ambigua «quasi-soggettività», il suo «valore» estetico offerto «per noi» nella mondanità intersoggettiva. La descrizione dell'oggetto estetico e dell'opera d'arte, nella loro stretta correlazione, si rivelano cosi solo una introduzione alla teoria vera e propria della percezione estetica, cui non si è mai cessato di alludere.

 

Note

[69] M. Dufrenne, Art et politique, Paris, U.G.E. 10/18, 1974, p. 188.

[70] La prima opera di Dufrenne, scritta in collaborazione con F. Ricoeur dopo cinque anni passati insieme in prigionia, è Karl Jaspers et la philosophie de l'existence, Paris, Seuil, 194 7, volume fondamentale per l'interpretazione del filosofo esistenzialista tedesco. Peraltro, sia in Ricoeur sia in Dufrenne si potranno riscontrare, nella produzione successiva, influssi di questo filosofo: il primo, infatti, approfondirà i temi della volontà, della colpa e della finitudine umana, mentre il secondo vedrà in Jaspers il superatore del limitato orizzonte heideggeriano dell'«essere per la morte» in una più articolata e compiuta metafisica esistenziale. La seconda operadi Dufrenne è invece La personnalité de base, Paris, P.U.F., 1953, uno studio approfondito delle teorie antropologiche dei sociologi americani Kardiner e Linton. Qui Dufrenne parla per la prima volta di fenomenologia interpretandola come il principale strumento di «ritorno al concreto» che «mette l'accento sul fenomeno, insieme sul carattere immediatamente significante del fenomeno e sulla presenza immediata del fenomeno alla coscienza» (Ibid., p. 23). Peraltro un forte interesse antropologico caratterizzerà tutta l'opera posteriore di Dufrenne.

[71] L'opera è infatti pur sempre una realtà costruita. Vi è inoltre da considerare che quando Dufrenne, a partire da Le poétique del 1963, si occuperà della creazione, continuerà a non rivolgersi all'esame del singolo creatore o, come H. Delacroix, delle costanti della psicologia del creatore stesso: si svolgerà invece alla poieticità di un principio che è in se stesso radice del soggetto e dell'oggetto.

[72] M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, t. II, cit., p. 273 e p. 281.

[73] M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, t. I, Paris, Klincksieck, 1967, p. 56.

[74] M. Dufrenne, Fenomenologia dell'esperienza estetica, cit., p. 22. Accantonare l'autore dal campo di studio dell'estetica, oltre ad essere una «limitazione di cui è denunciabile l'esclusività» (come scrive J.C. Piguet, Esthétique et Phénoménologie in «Kant Studien», 47, 1955-56, p. 192), non significa solo, come afferma Dufrenne, risparmiarsi delle delusioni fingendo di ignorare che Gauguin e Verlaine erano alcol izzati, Rimbaud un losco mercante d'armi, Van Gogh un «semplice schizofrenico» o Proust un «omosessuale vergognoso»: scarsa importanza possono avere singoli particolari biografici ma mettere da parte l'autore significa soprattutto rischiare di precludersi la comprensione del contesto storico in cui essi hanno operato le loro opere.

[75] G. Morpurgo-Tagliabue, L'esthétique contemporaine, Milano, Marzorati, 1960, p. 461. Morpurgo nota tuttavia, a parer nostro con ragione, che il formalismo tende a vanificarsi nel secondo volume della Fenomenonologia dell'esperienza estetica.

[76] M. Dufrenne, Esthétique et philosophie, t. I, cit., p. 25.

[77] C. Rosso, Ragguagli sul più recente pensiero estetico francese, in «Rivista di estetica», 1956, n. 1, p. 133.

[78] D. Formaggio, L'idea di artisticità, cit., p. 267. Anche Morpurgo-Tagliabue, op. cit., p. 461 afferma che Dufrenne affronta il problema dell'oggetto estetico «come un empirista». Peraltro A. de Muralt, L'idée de la phénomenologie, Paris, P.U.F., 1958, p. 361 sostiene che Dufrenne «riconduce il metodo fenomenologico al suo campo originario».

[79] D. Formaggio, op. cit., p. 268.

[80] E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro primo, cit., p. 42. Tuttavia Dufrenne si avvicina molto ad alcune posizioni della pnma estetica d'ispirazione fenomenologica in Italia dove, con A. Banfi, ci si rifiutava di definire l'arte poiché la domanda stessa «che cosa è l'arte» e una formulazione pre-galileiana, scolastico-aristotelica, fondata su una concezione essenzialistica e su un metodo di realismo concettuale» (A. Banfi, I problemi di un'estetica filosofica, Milano, Parenti, 1961, p. 151).

[81] M. Dufrenne, Fenomenologia dell'esperienza estetica, cit., p. 31. Dufrenne riafferma questa posizione anche in saggi piu tardi contenuti in Esthétique et philosophie, tome II, dove afferma: «Non attardiamoci a discernere un'essenza dell'arte: siamo empiristi. L'arte è l'insieme delle opere d'arte tali quali decidono la tradizione e gli esperti» (p. 21).

[82] Ibid., p. 56.

[83] Ibid., p. 61.

[84] Ibid., p. 63.

[85] Ibid., p. 76 e p. 77. Vicino a Dufrenne è in questo senso lo storico dell'arte René Huyghe, e in particolare il suo Dialogue avec le visible, Paris, Flammarion, 1956. Per ulteriori informazioni si veda l'appendice bibliografica.

[86] Ibid., p. 226.

[87] Ibid., p. 231.

[88] Ibid., p. 244.

[89] Ibid., p. 257. Dufrenne ammette qui di privilegiare l'analisi delle arti rappresentative.

[90] Ibid.,p. 269.

[91] Ibid., p. 281.

[92] Ibid., p. 283.

[93] Ibid., p. 310. Questa posizione è riaffermata da Dufrenne in un saggio del 1954, Intentionnalité et esthétique in Esthétique et Philosophie, t. I, cit., dove si afferma che l'oggetto estetico è doppiamente legato alla soggettività, quella dello spettatore e quella del creatore. Inoltre, in riferimento all'espressività dell'oggetto estetico, si dice: «Se l'oggetto è capace di espressione, si porta in sé un mondo proprio tutto differente dai mondo oggettivo, nei quale è situato, bisogna dire che manifesta la virtù di un per se, che è un quasi soggetto» (p. 58).

[94] M. Dufrenne, Fenomenologia dell'esperienza estetica, cit., p. 329.

[95] In riferimento a Boris de Schloezer, Dufrenne guarda alla sua opera Introduction a Bach, Paris, Gallimard, 1947, dove, pur partendo dall'analisi della musica di Bach, ben presto si passa ad analizzare la struttura della musica, che è «un tutto stabile, ben definito e significante» (p. 27). Dufrenne analizza in modo particolare la terza parte del lavoro dove De Schloezer coglie il senso dell'opera musicale nei tre aspetti razionale, psicologico e spirituale. Il senso razionale - egli scrive - viene assorbito dalla musica perché essa «non ne tiene conto, perché, in virtù della sua natura, io ignora totalmente» (p. 289). Il senso psicologico appartiene invece all'espressività dell'opera mentre il senso spirituale appare come l'«idea concreta» dell'opera, che dà unità all'oggetto estetico musicale e lo fa divenire significato di se stesso. Dufrenne ovviamente contesta che un senso spirituale, che considera intellettualista, superi l'espressività dell'opera. Ma forse ha ragione J.C. Piguet (art. cit.), a far notare che, al di là della diversa terminologia, l'espressività di Dufrenne coincide con il senso spirituale di De Schloezer e non con il senso psicologico. In questo senso De Schloezer ha probabilmente influito sul pensiero di Dufrenne. Di Gisele Brelet, originale estetologa e pianista che aderisce al cosiddetto «formalismo» e che senza dubbio è rimasta influenzata da Hanslick, Dufrenne coglie, più che le analisi sul tempo metafisico come tempo specifico della musica, analisi che si oppongono a Bergson e sono invece ricche di richiami al problema del ritmo sollevato da Delacroix, Bayer e Bachelard e che la Brelet sviluppa in Le temps musical, Paris, P.U.F., 1947, le indagini relative al problema della esecuzione e della creazione musicale, trattate in L'in terpretation créatrice, Paris, P.U.F., 1951 e in Esthétique et creation musicale, Paris, P.U.F., 1947.

L'analisi dell'opera d'arte da parte di Dufrenne, oltre che da questi due autori e da Souriau, è probabilmente influenzata anche dall'americano Thomas Munro, con il suo The Arts and Theirs Interrelations, Cleveland, Western Reserve University, 1949 e in particolare dalla terza parte del volume, che ha per titolo «Caratteristiche individuali delle arti».

[96] M. Dufrenne, Fenomenologia dell'esperienza estetica, cit., p. 364. Le parti dedicate all'analisi dell'opera musicale e pittorica, dove insiste nel trovare improbabili parallelismi formali, non so no, a parer nostro, fra le più felici del lavoro. In ogni caso, è qui che si verifica il forte influsso di un certo modo di procedere tipico di Bayer e di Souriau.