Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione tredicesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Moore e la rivendicazione del senso comune

 

 

 

 

 

Possiamo ora, dopo le considerazioni proposte sul tema della certezza, addentrarci nuovamente nella riflessione sul senso comune che Moore ci propone in A Defence of Common Sense (1925). Un punto ormai ci è chiaro: il senso comune deve articolarsi in un insieme di certezze, di proposizioni che sono contingenti ma di cui tuttavia non possiamo dubitare. Le proposizioni del senso comune sono dunque certe, e della certezza condividono le proprietà, e tra queste in particolare il carattere prescientifico: certe sono quelle proposizioni la cui verità non dipende da un criterio di prova e non chiama in causa un metodo che, ponendole, vincoli alla sua correttezza la loro veridicità. La sfera del senso comune può così essere circoscritta rispetto alle verità scientifiche insistendo sul carattere di certezza delle proposizioni che lo esprimono

E tuttavia riconoscere il nesso che lega il senso comune alla certezza non deve farci dimenticare di una precisazione importante che per alcuni versi rammenta una preoccupazione che abbiamo già imparato a cogliere nelle pagine husserliane a proposito della distinzione tra il mondo della vita nella sua piena concrezione e le strutture invarianti della Lebenswelt. Per Moore, come sappiamo, la sfera della certezza e la sfera del senso comune non coincidono, poiché la prima è più ampia della seconda. In altri termini: non tutte le certezze appartengono al senso comune, poiché non tutte determinano in qualche modo l’immagine del mondo che gli è propria. Così, che in questa stanza ci siano finestre e porte è una certezza su cui non ha senso dubitare, ma non per questo è legittimo annoverare questa tesi tra le tesi del senso comune che hanno necessariamente un carattere più generale. Ora, Moore non ci dice quale sia il criterio per distinguere nell’insieme delle certezze il sottoinsieme che gli interessa, ed è difficile non scorgere qui un tratto caratteristico del suo stile espositivo, che è talvolta meticoloso sino al dettaglio, senza per questo liberarsi interamente da una relativa vaghezza per ciò che concerne la prospettiva di insieme del discorso. E tuttavia, piuttosto che perderci in giudizi, proviamo a leggere quali siano per Moore alcuni proposizioni del senso comune, per vedere se non sia possibile trarre di qui la linea di discrimine che ci interessa.

Moore procede così: dapprima enuncia in prima persona (al punto 1) una serie di proposizioni delle quali dichiara di sapere con certezza che sono vere, per poi proporre (al punto 2) una tesi, che deve valere essa stessa come un truismo, che asserisce che per la stragrande maggioranza degli uomini (o come potremmo dire: per tutti gli uomini, eccezion fatta per alcuni filosofi nell’esercizio delle loro funzioni) le proposizioni dianzi elencate sono indiscutibilmente vere. O più precisamente: la proposizione (2) asserisce che è vero che per ciascuno di noi è del tutto certo un insieme di proposizioni, ciascuna delle quali corrisponde ad una delle proposizioni che Moore dichiara certe per sé e che elenca al punto (1). Per dirla con Moore:

In altri termini, la proposizione (2) afferma solo (e questo sembra essere un truismo fin troppo ovvio) che ciascuno di noi […] ha spesso riconosciuto, rispetto a o al proprio corpo e al momento in cui ne è venuto a conoscenza, tutto ciò che io, scrivendo la serie delle proposizioni (1), ho affermato di conoscere rispetto a me o al mio corpo e al momento in cui ho scritto quella proposizione (In difesa del senso comune, in Scritti filosofici, op. cit., p. 24)

Ora, comprendere il significato di questa strana procedura significa in primo luogo sottolineare che non si tratta di una pretesa che faccia tutt’uno con la natura della certezza. Io posso essere certo solo di ciò conosco; ma ciò che conosco non esaurisce ciò che è vero e che può quindi essere conosciuto da un altro: ne segue che è possibile che ciò che per te è certo non lo sia per me e che quindi non sia affatto ovvio sostenere che per ciascuno di noi debba essere certa una proposizione che corrisponda ad una tesi che sia certa per me. Per dirla con un esempio: io so che nella stanza in cui lavoro vi è una finestra sul tetto, ma questo non significa che tutti condividano questa certezza. Possiamo allora fare un primo passo in avanti, ed osservare che nel passaggio dalle proposizioni elencate in (1) alla proposizione (2) ci si propone un primo criterio per distinguere dall’universo delle certezze quelle che appartengono al senso comune: per parlarci del senso comune una certezza deve essere non soltanto condivisibile, ma effettivamente condivisa da tutti. Che questo criterio sia necessario, ma non sufficiente è facile scorgerlo: un fatto che fosse noto a tutti (la scoperta dell’America, la seconda guerra mondiale,…) non apparterrebbe per questo al senso comune.

Così, se Moore può ritenere di avere comunque circoscritto la sfera del senso comune non è in virtù del passaggio da ciò che è certo per me a ciò che è certo per ciascuno di noi, ma grazie alla peculiarità delle proposizioni che ci vengono proposte. Leggiamole:

Esiste attualmente un corpo umano vivo che è il mio corpo. Questo corpo è nato in un certo momento del passato e da allora ha continuato ad esistere, pur essendo stato sottoposto a modificazioni; per esempio, quando è nato, e anche in seguito per un certo tempo, era molto più piccolo di quanto non lo sia ora. Dal momento della nascita è sempre stato a contatto con la superficie della terra o poco distante da essa e, a partire dalla sua nascita, sono sempre anche esistite molte altre cose, caratterizzate da forma e grandezza tridimensionale (nel senso familiare in cui anch’esso ne è caratterizzato) rispetto alle quali si è trovato a varie distanze (nel senso familiare in cui si trova ora ad una certa distanza sia dal caminetto, che dalla libreria, e ad una distanza maggiore dal caminetto che dalla libreria); sono anche sempre esistite (o, comunque, molto frequentemente) altre cose di questo tipo con le quali è stato in contatto (nel senso familiare in cui si trova ora a contatto con la penna che tengo nella mano destra e con alcuni indumenti che ho indosso). Fra le cose che, in questo senso, hanno fatto parte del suo ambiente [¼ ] c’è stato in ogni momento, a partire dalla sua nascita, un gran numero di altri corpi umani vivi, ciascuno dei quali, come il mio, (a) è nato in un certo momento, (b) ha continuato ad esistere dopo la nascita (c) è stato in ogni momento della sua vita, a partire dalla nascita, a contatto con la superficie della terra o poco distante da essa; e molti di questi corpi sono già morti e hanno cessato di esistere. Inoltre la terra è esistita per molti anni prima che il mio corpo nascesse e per buona parte di questi anni è vissuto sulla terra ininterrottamente un gran numero di corpi umani. Molti di questi sono morti e hanno cessato di esistere prima che il mio nascesse. Infine, per passare ad una differente classe di proposizioni, io sono un essere umano e, in vari momenti successivi alla nascita del mio corpo, ho avuto molte esperienze diverse di natura estremamente varia. Per esempio [¼ ] ho avuto aspettazioni relative al futuro e molte credenze di altro genere, sia vere che false. Ho pensato a cosse, persone ed eventi immaginari che non credevo reali. Ho sognato e ho provato sentimenti di natura molto varia. E proprio come il mio corpo è stato il corpo di un essere umano, e cioè di me stesso [¼ ], così, nel caso di altri corpi umani che sono vissuti sulla terra, ciascuno è stato il corpo di un diverso essere umano che durante la vita del suo corpo ha avuto molte varie esperienze di questi e di altri diversi generi (ivi, pp. 22-23).

Che dire di questo lungo elenco di proposizioni, espresse in questo stile così volutamente pedante? In primo luogo, credo, si debba innanzitutto interrogarsi sulla relazione che queste proposizioni stringono con le verità che abbiamo letto nelle pagine di La certezza, e non vi è dubbio che questo compito non sia poi così semplice. Un tratto tuttavia balza agli occhi: qui Moore non ci propone più affermazioni che concernano un fatto tra gli altri possibili (che sia seduto, che questa stanza abbia finestre, ecc.), ma tesi che valgono ora ma che sono poste come se potessero pretendere di valere sempre, in qualsiasi situazione. Io ora ho un corpo umano, ma ciò che è vero ora non sembra poter essere falso in seguito: il mio avere un corpo non sembra essere, in altri termini, una certezza vincolata ad una qualche situazione determinata, e lo stesso vale — nelle intenzioni di Moore — per tutte le altre certezze del senso comune, che sembrano essere così caratterizzate da una duplice proprietà: dal loro essere condivise da tutti (qualche filosofo escluso) e dal loro essere di fatto indipendenti da un contesto.

Su questo "di fatto" è opportuno insistere: Moore non cerca le strutture invarianti della Lebenswelt e non ritiene che si debba individuare o che sia comunque possibile cogliere le strutture del mondo della vita, e cioè quell’insieme di regole elementari che sono a fondamento dei giochi linguistici che non possono mancare in una forma di vita tipicamente umana. La sua filosofia è appunto una filosofia del senso comune, ed il senso comune è una struttura fattuale che abbraccia tutto quello che può abbracciare, — sino a prova contraria. Così, non dobbiamo stupirci se tra le certezze del senso comune dobbiamo trovare una certezza che smette di essere tale nel 1961 quando — per esprimersi nello strano modo in cui Moore si esprime — il corpo di Yuri Gagarin smise di essere a contatto o poco distante dalla superficie della terra.

Avremo modo di tornare su questo tema, in cui traspare già una traccia di quella nostalgia per l’obiettivismo fenomenologico cui dovremo più volte dar voce. Ora dobbiamo invece insistere nel nostro tentativo di far luce su ciò che Moore intende quando ci propone le tesi che abbiamo citato come tesi del senso comune. Proporre i due criteri che abbiamo dianzi citato è forse sufficiente per circoscrivere tra le certezze le tesi del senso comune, ma non è ancora sufficiente se ci si pone invece l’obiettivo di spiegare perché queste tesi debbano porsi come un tentativo di articolare l’immagine del mondo del senso comune. Di qui la necessità di far luce su un’altra caratteristica peculiare delle proposizioni del nostro elenco — una caratteristica su cui ci siamo in parte già soffermati: per tutte le proposizioni citate il loro essere conosciute come vere fa tutt’uno con il loro essere certe prima di, ed indipendentemente da, ogni analisi del loro significato. Su questo punto Moore è categorico:

nelle pagine precedenti ho dato per presupposto che esista un significato coincidente con il significato ordinario o popolare di espressioni come "la terra esiste da molti anni", ma temo che un presupposto siffatto susciti le obiezioni di certi filosofi. Costoro sembrano ritenere che la domanda "credi che la terra esista da molti anni?" non sia una domanda elementare cui si possa rispondere semplicemente con un "sì" o con un "no" oppure con un "non so cosa pensarne", ma che ad essa si debba propriamente rispondere: "dipende da che cosa si intende per ‘terra’, ‘esiste’ e ‘anni’; se si intende questo e quest’altro allora sì; ma se si intende questo e quest’altro allora no, o almeno io sono in una posizione di forte dubbio". Mi pare che un simile punto di vista sia più sbagliato di qualunque altro possibile. Un’espressione come ‘La terra esiste da molti anni’ è tipicamente priva di ambiguità e tutti ne comprendono il significato. Chiunque sostenga un’opinione contraria confonde, a mio parere, due problemi del tutto diversi: 1) se comprendiamo il significato della frase (cosa di cui tutti noi siamo certamente capaci); 2) se sappiamo che cosa significa, nel senso che siamo in grado di analizzare correttamente il suo significato. Quale sia l’analisi corretta della proposizione a cui rimanda in ogni occasione [¼ ] la frase ‘la terra esiste da molti anni’ è, a mio parere, una questione molto difficile che [¼ ] nessuno è in grado di risolvere. L’affermare però che non si sa in che cosa consista, per certi aspetti, l’analisi di ciò che si intende con questa espressione è cosa completamente diversa dall’affermare che non si comprende l’espressione (ivi, pp. 25-26).

Ora, il senso di questa precisazione è relativamente ovvio: se vogliamo muoverci sul terreno del senso comune non potremo abbandonare il terreno dell’immediatezza, per tradurre in un linguaggio teorico ciò che ci si dà come immediatamente certo. Possiamo anzi spingerci un passo in avanti ed osservare che questa traduzione potremmo non essere affatto in grado di offrirla:

Noi ci troviamo tutti, io credo, in questa strana situazione: sappiamo di fatto molte cose, riguardo alle quali sappiamo anche che dobbiamo aver avuto qualche prova evidente della loro verità, ma non sappiamo come siamo venute a saperle, cioè non riusciamo a individuare la prova originaria della loro verità (ivi, p. 35).

Potremmo allora trarre questa conclusione: una tesi del senso comune è una tesi che non chiede di essere riformulata in un linguaggio filosofico, — in un linguaggio in cui tutte le proposizioni siano interamente analizzate. E tuttavia sarebbe un errore credere che il senso di questa mossa sia riconducibile a questo: alla constatazione secondo la quale il senso comune non parla necessariamente i linguaggi teorici del costruzionismo fenomenistico. Il senso di queste considerazioni è più ricco: Moore vuole sostenere che la certezza di queste proposizioni fa tutt’uno con il loro carattere non analizzato, con il loro porsi come certezze immediate che sono prima dell’analisi e che sono presupposte da ogni ulteriore prassi. È in questo senso che Giulio Preti parlava, a proposito del realismo del senso comune di Moore, di "metaphysica naturalis" — di una metafisica cioè che è prima della riflessione propriamente filosofica e che è inconfutabile proprio perché è prima del terreno specifico della confutazione. In altri termini: le certezze del senso comune sono tali, proprio perché la loro verità e certezza non si commisura rispetto ad altre proposizioni teoriche, ma si rapporta invece alla dimensione esistenziale del filosofo, — al suo essere innanzitutto un uomo tra gli altri uomini. E se ci si pone in questa prospettiva il senso comune deve apparirci come un insieme di tesi che danno forma proposizionale ai presupposti su cui si fonda la nostra esistenza quotidiana.

Di qui la forma peculiare che Moore dà alla sua apologia del senso comune. Quando si accinge a contrastare chi ritiene almeno in parte false le tesi del senso comune, Moore ritiene che il cammino che deve essere seguito consista nell’indicare la contraddizione che si pone tra ciò che il filosofo sostiene e la formulazione proposizionale dei presupposti del suo sostenerlo. Così, se un filosofo sostiene che

"nessun essere umano ha mai conosciuto l’esistenza di altri esseri umani", ciò equivale ad affermare "ci sono stati molti altri esseri umani oltre a me, e nessuno (me compreso) ha mai conosciuto l’esistenza di altri esseri umani". Se poi asserisce "queste credenze appartengono al senso comune, ma non sono materia di conoscenza", ciò equivale ad affermare: "ci sono stati molti altri esseri umani oltre a me che hanno condiviso queste credenze, ma né io né gli altri siamo mai arrivati a sapere se siano vere". In altri termini, costui afferma con sicurezza che queste credenze sono credenze del senso comune e sembra non rendersi conto che, se lo sono, devono essere vere (ivi, 93).

L’argomento è chiaro: Moore ci invita a riflettere sul fatto che ogni affermazione implica dei presupposti, e tra questi presupposti vi sono ovviamente quelli che concernono l’esserci di altri uomini quegli uomini cui ci rivolgiamo quando neghiamo per esempio che vi siano altri esseri umani. Ed è certo di questo: che questi presupposti siano a loro volta proposizioni che debbono essere considerate certe e vere. Ma una volta che questi presupposti siano formulati proposizionalmente, le tesi che negano il senso comune divengono contraddittorie, o almeno lo diventano se accettiamo di disporci nella struttura argomentativa che Moore ci propone e che ha il suo incipit in un gesto solo apparentemente innocente: nel suo proporci una serie di certezze e nel chiederci se le condividiamo, costringendo così lo scettico a disporre la sua tesi nel contesto pragmatico del dialogo e quindi all’interno di una forma che presuppone quel "noi" che a parole si cerca poi di negare. Disposte sul terreno del dialogo filosofico, le tesi dello scettico presuppongono quello che negano e si tolgono di per se stesse.

Con ciò le nostre considerazioni sulla filosofia del senso comune in Moore possono dirsi concluse. Il nostro obiettivo, del resto, era di carattere puramente espositivo: volevamo di fatto mostrare quali fossero i presupposti del testo wittgensteiniano e non già tentare una qualche considerazione più approfondita sulle pagine di questo filosofo inglese, di cui la riflessione contemporanea si è sostanzialmente dimenticata. E tuttavia, almeno su un punto, è opportuno attirare sin d’ora l’attenzione: per Moore, parlare del senso comune significa soffermarsi su un insieme non chiaramente definito di proposizioni che sono certe poiché prestare ascolto alla voce di chi le contesta significa insieme presupporre che sia vero ciò che quelle voci negano — che vi siano o che vi siano stati altri uomini e altri corpi che hanno creduto vero che non vi fossero altri uomini e altri corpi. Affermare che l’esistenza di altri esseri umani è falsa opinione di altri esseri umani, è affermare, osservava ancora Giulio Preti, che esistono altri esseri umani con false opinioni, — significa dunque contraddirsi. Ma — ed è questo il punto su cui dovremo in seguito riflettere — sulla natura di questa contraddizione per Moore non sembra opportuno riflettere; e se ciò accade è perché la risposta è ovvia: si tratta di una contraddizione in senso proprio che sussiste tra due diversi ordini di proposizioni: tra le proposizioni certissime del senso comune e le proposizioni di una qualche teoria filosofica. Ma è in realtà dubbio che le cose stiano così, e la stessa peculiare posizione delle tesi del senso comune rispetto al problema della loro confutabilità avrebbe dovuto spingere Moore a riflettere meglio su questo tema di cui dovremo nuovamente discorrere quando affronteremo le pagine di Über Gewissheit di Ludwig Wittgenstein.

 

 

 

 

 

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