Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione ventesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Uno sguardo retrospettivo

 

 

 

 

 

Alcmeone di Crotone diceva che per questo gli uomini muoiono - perché non sanno unire l'inizio con la fine, e noi armati di questa massima così ricca di suggestioni ci apprestiamo a ricucire la seconda alla prima parte del nostro corso.

Che questo compito debba essere affrontato è ovvio: se vogliamo trovare la ragione per la quale all'analisi della Lebenswelt abbiamo affiancato la lettura delle ultime pagine di Wittgenstein dobbiamo mostrare dove e come sia possibile indicare il cammino che le unisce. E tuttavia, prima di affrontare questo problema, è opportuno armarsi di cautela e riconoscere che accostare l'una all'altra la fenomenologia di Husserl alla filosofia del secondo Wittgenstein significa compiere una mossa che è non soltanto azzardata ma alla lunga insostenibile, poiché le diversità che le separano sono troppe e troppo consistenti.

Queste diversità sono sotto gli occhi di tutti. Husserl è convinto che la filosofia possa proporre una fondazione ultima del sapere e ritiene possibile indicare la sfera delle esperienze soggettive come il terreno immediatamente accessibile cui ricondurre le costruzioni più complesse che sono implicate dall'acquisizione conoscitiva delle cose e del mondo. Diversa è la posizione di Wittgenstein che non ritiene possibile accedere al terreno circoscritto dal cogito e che pensa che i giochi linguistici siano da un lato espressione dell'impossibilità di sospingere l'analisi del significato al di là della prassi linguistica, dall'altro dell'illegittimità di ogni tentativo di ancorare l'insieme delle nostre credenze ad una giustificazione ultima: i giochi linguistici sono appunto qualcosa che si dà e che non può essere ulteriormente giustificata.

Lo abbiamo osservato più volte: per Wittgenstein, le giustificazioni hanno un limite, e là dove le spiegazioni vengono meno resta solo il rimando al terreno degli esempi. In un passo delle Ricerche filosofiche, Wittgenstein scrive che per venire a capo della natura dei concetti dobbiamo necessariamente rinunciare alla pretesa di afferrare "in una volta sola" il cuore dell'idea, per muoverci invece sul terreno delle illustrazioni concrete, degli esempi (ivi, § 71). E se degli esempi abbiamo bisogno ciò accade perché il concetto non può essere disgiunto dalle forme concrete della sua applicazione: all'immagine del concetto come quell'identico di cui le singole cose partecipano si sostituisce l'idea di un organizzarsi dell'esperienza secondo un insieme di pratiche e di consuetudini consolidate - di giochi linguistici, appunto.

Che qui sia all'opera un'istanza antiplatonica è del tutto evidente, così come è evidente il fatto che anche su questo terreno le strade di Husserl e di Wittgenstein sembrano dividersi. Wittgenstein è il filosofo delle "somiglianze di famiglia", e non vi è pagina nelle Ricerche filosofiche che non ci inviti a sottolineare la labilità dei confini dei concetti, secondo un'inclinazione teorica che è attraversata dal desiderio di dar voce innanzitutto alle ragioni della molteplicità e del cambiamento, di contro ai motivi che tendono a sottolineare le istanze della staticità e dell'unità. Di questo pathos distruttivo nella fenomenologia husserliana non vi è traccia, e dalla Filosofia dell'aritmetica alla Crisi il pensiero husserliano è dominato dal bisogno razionalistico di mostrare, al di là dei tratti accidentali, l'invarianza del concetto: non è un caso allora se nelle indagini fenomenologiche si parla insistentemente di essenze, e per farlo ci si avvale di un termine che è tratto di peso dalla filosofia platonica - il termine eidoi. Certo, quando Husserl parla di eidoi non intende i concetti empirici ma le strutture invarianti che caratterizzano le cose esperite in quanto tali, ed un'analisi di ciò che Husserl intende quando parla di concetti puri e di variazione eidetica ci porterebbe in prossimità della nozione wittgensteiniana di grammatica filosofica. E tuttavia, anche su questo punto la differenza deve infine prendere il posto dell'analogia: per Husserl, le strutture concernono direttamente la forma dell'esperienza, il cui terreno è accessibile prima d ogni riferimento linguistico. Non così stanno le cose per Wittgenstein: la grammatica è sempre grammatica del linguaggio, e si muove quindi sul terreno dei giochi linguistici, di forme che possono essere, in quanto tali, modificate. E se le cose stanno così, se le differenze sono così numerose e significative, il nostro tentativo di riconnettere l'inizio alla fine sembrerebbe votato a un sicuro insuccesso.

Il nostro problema muta di aspetto e ci appare in una luce almeno in parte nuova se modifichiamo il nostro punto di vista e non ci poniamo il compito di confrontare l'una con l'altra due filosofie colte nella loro astratta generalità, ma ci chiediamo se non sia possibile individuare nella riflessione husserliana sulla Lebenswelt alcuni orientamenti di fondo che ci riconducono in prossimità delle tesi wittgensteiniane. Ora, la Lebenswelt è, per Husserl, il tema di un'analisi puramente descrittiva che dischiude il terreno delle nostre immediate certezze ed abbraccia l'insieme aperto delle ovvietà che derivano dalla nostra esperienza percettiva e che costituiscono lo sfondo invariante su cui poggia ogni ulteriore valorizzazione espressiva e conoscitiva. È in questo senso che la certezze della Lebenswelt assumono una funzione trascendentale e si pongono come un terreno che non può essere messo in questione, se non si vogliono insieme negare le condizioni di possibilità della prassi scientifica, così come di ogni altra prassi culturalmente atteggiata. In queste considerazioni ci siamo più volte imbattuti nel nostro tentativo di delineare il concetto husserliano di mondo della vita, ed in particolar modo l'attenzione che abbiamo dedicato alle riflessioni sull'origine della geometria ci ha permesso di mettere meglio a fuoco questo tema. Rammentiamo brevemente questo tema: nella Crisi, Husserl si sforza di mostrare come i concetti geometrici elementari possano essere introdotti sul terreno pre-geometrico attraverso il rimando ad un insieme di operazioni di carattere intuitivo che si giocano sul terreno dell'esperienza. Le convenzioni linguistiche che il matematico formula sul terreno propriamente geometrico hanno così una loro anticipazione sul terreno dell'esperienza e della prassi: nelle convenzioni del matematico assume forma nuova un concetto la cui determinatezza è stata esemplarmente tracciata sul terreno intuitivo dell'esperienza. Potremmo forse esprimerci così: quando Euclide propone la sua definizione di retta non crea ex nihilo un oggetto nuovo, ma non descrive nemmeno un'idea che appartenga al cielo sopra al cielo delle matematiche, ma pensa a come debba dare forma linguistica ad un concetto intuitivo che sorregge la sua attività intellettuale e ne guida i passi. Il nuovo nasce dal vecchio, e l'oggetto ideale che il linguaggio delinea nell'unità del sistema geometrico ha le sue radici nel concetto intuitivo di retta, in qualcosa che impariamo a pensare sul fondamento di una serie di operazioni intuitive.

Che in questa forma di chiarificazione concettuale sia all'opera una concezione di stampo antiplatonico che sia annuncia esemplarmente nell'incipit della seconda parte della Crisi ("per il platonismo il reale aveva una metessi più o meno perfetta all'ideale...") non è difficile mostrarlo: Husserl non ci propone una definizione dei concetti geometrici, non ci chiede di fissare una volta per tutte la loro natura in un asserto che decida in totale libertà quale sia la forma linguistica cui spetta il compito di "mettere al mondo" piani e rette, ma ci insegna ad utilizzarli attraverso il rimando al terreno dell'esperienza e alle forme della prassi che in essa si esplicano, per invitarci poi ad osservare che cosa propriamente muta quando quelle stesse nozioni sono riformulate linguisticamente sul terreno geometrico. E ciò che è vero per i concetti di retta e di piano vale anche per ogni altra nozione il linguaggio ci porga, poiché il mondo della vita si pone come la struttura invariante e come il fondamento che ci permette di introdurre esemplarmente i concetti di cui ci avvaliamo.

Sappiamo che questa nozione di Lebenswelt si inserisce in un progetto più ampio e che Husserl non rinuncia a cercare un cammino che dal mondo della vita ci riconduca alla soggettività del cogito. Ciò non toglie, tuttavia, che di qui sia possibile scorgere una significativa comunanza di orientamenti tra i temi che abbiamo affrontato nella prima e nella seconda parte del corso. Proprio come in Husserl, anche in Wittgenstein la distinzione tra sapere e certezza si traduce nel riconoscimento di una stratificazione dei giochi linguistici, che dalle forme più complesse del sapere ci riconduce infine a quelle certezze che si danno sul terreno dell'agire e della vita. Ora, queste certezze hanno - per Wittgenstein - carattere preteoretico, e questo significa da un lato che sono il fondamento su cui poggiano i nostri giochi linguistici, dall'altro che tendono a sottrarsi al meccanismo delle revisioni. Le teorie sono rivedibili, ma non quello sfondo di certezze che fa tutt'uno con il nostro agire e che abbraccia una molteplicità di pratiche che sono implicate da ogni altro nostro gioco linguistico. Qui ci imbattiamo in un terreno che sembra sottrarsi alla possibilità della revisione, in un sistema di certezze che, come la Lebenswelt husserliana, non può essere messo in discussione perché si pone come il fondamento di ogni mossa ulteriore. Negarlo vorrebbe dire cancellare con un tratto di penna ogni possibile unità di misura del giudizio (Della certezza, op. cit., § 492). Così, per quanto siano vari e per quanto sia lecito mostrarne la dipendenza dalle forme di vita e di cultura degli uomini, i nostri giochi linguistici sembrano infine alludere ad un sistema di riferimento tendenzialmente comune - al sistema delle certezze che si manifestano nel "comune agire degli uomini", ed anche se questo non equivale ancora a sostenere che vi siano verità del senso comune, è comunque evidente che Wittgenstein intende sostenere che la varietà dei giochi linguistici è, per così dire, limitata dal basso dal loro radicarsi nei tratti comuni ed elementari della prassi umana. Così, sia nel concetto di Lebenswelt, sia nelle pagine di Della certezza prende forma un'immagine della filosofia che tende esplicitamente a rifiutare la tesi secondo la quale il mondo della vita altro non sarebbe che una (falsa) teoria concernente il mondo, una teoria ereditata dal passato, ma destinata col tempo ad essere sostituita da ciò che il pensiero scientifico (le moderne teorie) vengono di volta in volta scoprendo. Per dirla in breve: per Wittgenstein come per Husserl il sistema delle certezze non è in tutto e per tutto riconducibile ad una "folk theory" destinata ad essere con il tempo corretta e confutata, poiché percorrendo a ritroso la catena dei giochi linguistici ci imbattiamo infine in un nucleo di certezze (nella struttura invariante della Lebenswelt) che fungono da fondamento dei giochi linguistici più complessi. L'istanza trascendentale in Husserl e il tema delle certezze presupposte in Wittgenstein ci appaiono in questa luce come due differenti prospettive che tuttavia convergono nella difesa della sensatezza e della tendenziale invarianza del sistema di riferimento del senso comune.

Possiamo spingerci ancora un passo in avanti ed osservare che la piega antiplatonica che caratterizza le riflessioni husserliane sulla funzione fondazionale della Lebenswelt trova anch'essa una sua viva eco nelle pagine wittgensteiniane. Rileggiamo per intero il passo delle Ricerche filosofiche che abbiamo dianzi rammentato:

così si può spiegare che cosa sia un gioco. Si danno esempi e si vuole che vengano compresi in un certo senso. - Ma con questa espressione non intendo: in questi esempi deve vedere la comunanza che io, per una qualche ragione, non ho potuto esprimere, ma: deve impiegare questi esempi in modo determinato. Qui l'esemplificare non è un metodo indiretto di spiegazione - in mancanza di un metodo migliore (Ricerche filosofiche, op. cit., § 71).

Dall'invito platonico che ci chiedeva di abbandonare gli esempi per pensare alla ragione profonda che fa sì che tutte le occorrenze di un termine designino qualcosa di eguale si debbono prendere ancora una volta le distanze, ma questa volta non ci guida più il bisogno di rammentare la mobilità del concetto, quanto la dimensione intuitiva che sorregge la prassi del gioco linguistico che, a sua volta, determina l'inclinazione di senso in cui quegli stessi esempi debbono essere giocati. A Socrate che ci invita a chiudere gli occhi sulla determinatezza sensibile degli esempi, si deve così contrapporre un consiglio radicalmente differente: il consiglio di non pensare affatto ma di guardare all'intreccio di somiglianze che guidano e sorreggono i nostri giochi linguistici. E se dagli esempi dobbiamo partire è perché il concetto non è altro che quel certo modo di intenderli che si manifesta nella prassi e non può quindi essere propriamente colto se non si mostra in che modo il gioco linguistico faccia presa sul contesto intuitivo su cui e in cui opera, orientandolo in una direzione determinata - in una direzione che sia conforme al sistema delle certezze di fatto condivise.

Certo, anche se ci dispone in questa prospettiva al momento delle analogie deve subentrare il momento delle differenze, e non vi è dubbio che per quanto sia lecito sottolineare i punti di contatto che legano la nozione di mondo della vita ad alcune delle tematiche che emergono nel secondo Wittgenstein, restano comunque alcune differenze tutt'altro che marginali. Vi sono innanzitutto differenze di stile filosofico: Husserl parla del mondo della vita e della sua funzione trascendentale e non esita ad avvalersi di una terminologia carica di risonanze teoriche estremamente impegnative; Wittgenstein parla invece di un sistema di certezze e del suo fungere da presupposto dei nostri giochi linguistici, e là dove la Crisi propone una genesi fenomenologica delle forme concettuali dall'esperienza, le Ricerche filosofiche sottolineano invece come la possibilità di apprendere un gioco linguistico passi necessariamente attraverso il rimando al terreno degli esempi. Del resto, anche se rivolgiamo lo sguardo al tema dell'invarianza e ci chiediamo se sia in linea di principio possibile che il sistema di riferimento del senso comune sia revocato in dubbio dai risultati di un'esperienza conoscitivamente atteggiata, ci imbattiamo in quello che potrebbe sembrare una diversità di accento: per Husserl, vi è una struttura invariante della Lebenswelt e non è nemmeno pensabile che le scienze correggano in qualche punto l'immagine originaria del mondo della vita, laddove per Wittgenstein questi stessi temi debbono apparire in forma più sfumata, - quasi che sul terreno filosofico non sia legittimo stringere in modo definitivo una qualche tesi conclusiva.

Basta tuttavia riflettere un poco su questi temi per rendersi conto che il problema è in realtà più complesso e che la differenza non concerne soltanto la forma ma investe una questione essenziale, sul cui significato teoretico ci siamo già soffermati. Come abbiamo osservato, per Husserl vi è un terreno apodittico cui ancorare le proprie tesi, e questo terreno è il terreno della soggettività così come l'epoché la dischiude. Di qui il carattere risoluto delle tesi husserliane: il terreno originario delle certezze del vivere è un dato cui la soggettività ha un immediato accesso, ed il filosofo che descrive le strutture essenziali del mondo della vita non può nemmeno in linea di principio chiedersi se l'immagine del mondo che l'epoché gli consegna possa essere revocata in dubbio, poiché ogni ulteriore acquisizione conoscitiva deve apparirgli necessariamente come il frutto di un processo di costituzione trascendentale che trae le proprie origini da ciò che soltanto è propriamente dato - dai vissuti della soggettività. In Wittgenstein le cose stanno diversamente. Qui l'incipit è dettato dalla prassi dei giochi linguistici, all'interno dei quali si muove ogni nostra possibile considerazione. Così, alla via che muove dai contenuti di una presunta esperienza prelinguistica per fondare costruttivamente le acquisizioni conoscitive della soggettività si deve contrapporre il cammino che, mantenendosi sul piano del linguaggio, mostra come i giochi linguistici costituiscano un sistema che poggia infine su uno sfondo di certezze che non possono vantare alcuna evidenza apodittica, né alcuna garanzia trascendentale, ma solo la forza di un imperativo ipotetico - quello che lega l'esserci di alcune convinzioni particolarmente importanti al porsi delle unità di misura che li rendono concretamente praticabili.

Del resto, verso questa stessa meta ci condurrebbero anche le riflessioni su un tema che abbiamo incontrato più volte nel corso delle nostre considerazioni - il tema dello scetticismo. Anche in questo caso, e proprio a causa della diversità di stile filosofico che distingue Husserl da Wittgenstein, è opportuno innanzitutto rivolgere lo sguardo al momento delle somiglianze.

Ora, se ci poniamo in questa prospettiva, è interessante rammentare che la riflessione storica della Crisi è interamente dominata dal riferimento teorico allo scetticismo. La tendenza scettica è il volto nascosto dell'obiettivismo, ed il filosofo che voglia aprire il cammino alla fenomenologia deve restituire al contenuto descrittivo dell'esperienza percettiva il significato che le spetta. All'obiettivismo che riduce l'esperienza ad un gioco di immagini causalisticamente determinate, il fenomenologo deve rammentare che questo sono le cose materiali, gli eventi, le persone: oggetti esperiti. Negare all'esperienza il senso che le compete significa allora condannarsi al silenzio, poiché ogni oggetto ed ogni forma della prassi dotata di senso - e tra queste forme vi è naturalmente anche il dubitare - ci riconduce infine alla terreno definitivamente fondante della nostra esperienza. Qualcosa di simile può essere detto anche per Wittgenstein; anche qui lo scetticismo deve apparire come una mossa insensata perché nella sua pretesa di avanzare un dubbio universale sulla verità delle nostre proposizioni mina alle basi la loro stessa sensatezza. Il rimando esemplare alla dimensione intuitiva come condizione cui è vincolata la significatività dei concetti si pone così come il motivo profondo che ci invita ad allontanare come priva di senso l'ipotesi scettica.

E tuttavia, ancora una volta, alla somiglianza si lega la differenza, poiché se è vero che lo scettico deve essere tacitato perché questo significa che qualcosa c'è e questo è ciò che esso è, diverso è il significato che si deve attribuire a quel deittico: in Husserl, la parola "questo" allude al processo della costituzione fenomenologica, in Wittgenstein all'istituzione di un gioco linguistico. Detto altrimenti: lo scetticismo è assurdo per Husserl perché il criterio di esistenza degli oggetti è l'esperienza stessa, laddove per Wittgenstein dire che questo significa dire che qualcosa c'è vuol dire soltanto rammentare quali siano le regole cui è vincolato il gioco linguistico del dichiarare esistente qualcosa.

A partire di qui è possibile forse cogliere in una luce migliore l'insieme delle somiglianze e delle differenze che caratterizzano il modo in cui Husserl e Wittgenstein affrontano il tema della certezza. Così, se il nostro obiettivo fosse davvero quello di gettare un ponte tra l'inizio e la fine del corso potremmo forse fermarci qui. Ma appunto non è questo il nostro obiettivo; il compito che ci prefiggevamo non era quello di mostrare che vi è una qualche affinità tra la tematica della Lebenswelt e le riflessioni wittgensteiniane sulla certezza. La nostra meta era diversa: volevamo cercare di comprendere se a partire dalle considerazioni wittgensteiniane non fosse possibile ripensare il metodo fenomenologico, liberandolo dalla piega introspettiva e dalla prospettiva fondazionale che in parte lo caratterizzano. Vogliamo, in altri termini, provare a pensare al metodo fenomenologico come ad un metodo degli esempi.

 

 

 

 

 

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