Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione ventesima

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Il metodo degli esempi

 

 

 

 

 

Il compito che vogliamo ora affrontare consiste nel tentativo di dare una forma più definita a ciò che intendiamo quando, muovendo dalle pagine wittgensteiniane, proponiamo di avvalerci di un metodo degli esempi.

Almeno ad un primo livello questa proposta dovrebbe suonarci relativamente chiara. Come abbiamo dianzi osservato, insegnare un gioco linguistico significa proporre degli esempi e chiedere che vengano compresi in un certo senso. Ora, come debbano essere intesi gli esempi lo determina il gioco linguistico, poiché il nesso tra ciò che funge da esempio e la funzione paradigmatica che gli compete si definisce nel ripetersi della prassi linguistica e quindi nel costituirsi di una prassi socialmente codificata. Per dirla con un esempio: la freccia del cartello indica una direzione solo se vi è un uso consolidato, se esiste una consuetudine che ci spinge ad usare quel cartello così come si deve.

Su questo punto le riflessioni di Wittgenstein sono chiare (Ricerche filosofiche, op. cit., § 198), e tuttavia sarebbe un errore credere che tra il gioco linguistico e la specificità dell'esempio non vi sia una qualche relazione, e le considerazioni che abbiamo proposto discorrendo del rapporto tra certezze e forma grammaticale ci hanno già mostrato che le cose non stanno così. Del resto, a questa relazione alludono anche le riflessioni che nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein dedica al tema della percezione delle espressioni e dei ritratti - ed a queste riflessioni vogliamo dare un rapido sguardo. In un passo per esempio si legge:

Si può dire: "in questo volto leggo la pusillanimità", ma in ogni caso la pusillanimità non mi sembra semplicemente associata al volto, legata ad esso dall'esterno; ma il timore vive sui tratti del volto. Se i suoi tratti cambiassero un poco potremmo parlare di un corrispondente cambiamento del timore. Se ci chiedessero: "Puoi immaginare questo volto anche come l'espressione del coraggio?" non sapremmo, per così dire, in qual modo collocare il coraggio in questi tratti. Allora forse dico: "Io non so che cosa voglia dire che questo volto è un volto coraggioso". Ma che aspetto ha la risposta ad una domanda siffatta? Forse si dice: "Sì, ora lo capisco; il volto è, per così dire, indifferente al mondo esterno". Così siamo penetrati nel volto e vi abbiamo scorto il coraggio. Ora, potrei dire, il coraggio si adatta di nuovo al volto. Ma che cosa si adatta qui a che cosa? (ivi, § 537).

Ecco, di fronte a noi vi è un viso che ci sembra suggerire l'idea della pusillanimità, ma poi qualcuno ci fa notare che potremmo vederlo diversamente e noi, vincendo qualche iniziale perplessità, riusciamo infine a vedere in quel volto ciò che ci si chiede: visto così il volto ci sembra esprimere coraggio e ciò che prima intendevamo come manifestazione di cautela ci appare come segno di un'acquisita indifferenza rispetto agli eventi. Ora, una prima reazione a questa breve storiella potrebbe essere questa: un volto in sé non esprime nulla, e l'unica cosa che sembra proiettare su di esso una qualche affettività è il rimando ad un contesto linguistico: ora il viso mi sembra segno di codardia perché così è inteso nel gioco linguistico dominante, ma è sufficiente che qualcuno richiami la mia attenzione sul suo essere anche immagine del coraggio per scorgere in quei tratti un sentimento che prima sentivo di poter escludere. Non vi è dubbio che una simile lettura del passo che abbiamo appena citato prenda le mosse da una constatazione che Wittgenstein sarebbe pronto a sottoscrivere - la constatazione secondo la quale l'espressività di un volto si determina in relazione ad un contesto, - che un'immagine è tale solo in relazione ad un gioco linguistico definito. Un sorriso sorride solo in un volto umano, scrive Wittgenstein e quest'osservazione così ovvia è volta anche a rammentare che il significato di un'immagine si comprende solo se non la separiamo dal contesto interpretativo cui appartiene:

Vedo un quadro che rappresenta un viso sorridente. Che cosa faccio se concepisco quel sorriso ora come un sorriso amichevole ora come un sorriso cattivo? Non accade spesso che lo immagini inserito in un ambito spaziale e temporale amichevole o cattivo? Così potrei completare il quadro immaginando che il volto sorrida a un gioco di bambini o alle sofferenze di un nemico (ivi, § 539).

Su questo punto si può convenire con Wittgenstein, ma sarebbe sbagliato credere che ci si possa fermare qui, e basta rileggere attentamente la proposizione da cui abbiamo preso le mosse per rendersene conto: Wittgenstein intende infatti richiamare la nostra attenzione non soltanto sulla necessaria dipendenza dell'espressione del volto dal gioco linguistico in cui è sito, ma anche sul rapporto che lega l'apprensione dell'aspetto di un volto al volto stesso, alla sua peculiare configurazione. La caratteristica essenziale di un ritratto è anzi proprio questa: il pittore ci presenta un volto che deve essere espressivo, senza tuttavia legarlo ad una circostanza che renda occasionale la sua espressione. E ciò è quanto dire: il ritratto propone l'espressività del volto anche al di là delle circostanze in cui si immagina che quell'affettività possa dispiegarsi.

Così, anche se di fronte ad un quadro possiamo avere reazioni diverse che dipendono in parte dal nostro bagaglio interpretativo (ivi, § 526), Wittgenstein ci invita egualmente ad osservare che la possibilità di piegare la forma intuitiva dell'immagine ad un senso determinato deve poter far presa sull'immagine stessa:

"L'immagine mi dice se stessa" - vorrei dire. E cioè, il fatto che essa mi dica qualcosa consiste nella sua propria struttura, nelle sue forme e colori (Che significato avrebbe il dire: "Il tema musicale mi dice sé stesso") (ivi, § 523).

Il punto è tutto qui: dire che l'immagine "dice se stessa" significa asserire che per venire a capo del senso alla cui luce comprendo una determinata immagine debbo puntare il dito sulle forme e sui colori che le competono. E ciò non significa naturalmente che per comprendere il significato di un'immagine non ho bisogno di alcun rimando ad un 'gioco linguistico' in cui situarla; vuol dire invece che ogni gioco linguistico deve comunque far presa sul contenuto dell'immagine, sulle forme e i colori di cui consta. Così, se qualcuno mi spiega un quadro ed io comprendo le sue parole, l'immagine acquista per me un nuovo senso; ciò tuttavia non significa che non abbia luogo un processo interno all'immagine: perché l'immagine acquisti un senso nuovo devo infatti riuscire a vedere il quadro così come mi si dice di guardarlo. E che le cose stiano così è un fatto che si mostra con chiarezza non appena ci chiediamo come facciamo a spiegare a qualcuno come debba vedere un determinato quadro, per intenderlo così come gli chiediamo di intenderlo: tutto il nostro sforzo consisterà nel richiamare la sua attenzione su certi particolari, che commenteremo in un certo modo, sostenendo a nostra volta il commento con l'esibizione di esempi analoghi. Anche un tema musicale lo si comprende così - ascoltando la musica e le parole che la commentano e sostenendo l'interpretazione con altri possibili esempi (ivi, § 527).

Di qui, da queste considerazioni che vertono sulla percezione e sulla comprensione delle immagini o dei temi musicali, possiamo muovere per trarre una prima conclusione di carattere generale: anche se un volto, un'immagine o un tema musicale divengono comprensibili pienamente solo se li si coglie all'interno di un gioco linguistico definito, resta comunque vero che ogni interpretazione deve anche accordarsi con la determinatezza sensibile di ciò che è inteso. Del resto, questo è ciò che Wittgenstein si chiede quando si domanda come sia possibile che un'interpretazione si attagli a ciò che è interpretato. Possiamo vedere come coraggioso il volto che poco fa ci era sembrato immagine della codardia, e in questo mutamento percettivo può sicuramente giocare un ruolo significativo il fatto che qualcuno ci inviti a guardarlo così, ma ciò non toglie che in ogni caso io debba riuscire a vedere quell'espressione in quel volto. Nella figura che vedo qualcosa deve spianare la strada a quella interpretazione:

Dico: "Questo volto (che dà l'impressione della pusillanimità) posso anche immaginarlo coraggioso". Con questo non intendiamo che posso immaginare come un tale con questa faccia possa, per esempio, salvare la vita di un uomo (naturalmente una cosa del genere si può immaginare di ogni volto). Parlo piuttosto di un aspetto [Aspekt] del volto stesso. E non intendo neanche che mi è possibile immaginare che quest'uomo possa cambiare il suo volto in uno coraggioso, nel senso usuale del termine; ma che esso può trasformarsi in un volto coraggioso in un modo ben definito. La diversa interpretazione di un'espressione del volto può paragonarsi alla diversa interpretazione di un accordo musicale, quando lo sentiamo come un passaggio ora ad una, ora ad un'altra tonalità (ivi, § 537).

O per fare un altro, diverso esempio:

Che cosa accade quando impariamo a percepire la conclusione di un modo ecclesiastico come conclusione? (ivi, § 535).

Ancora una volta gli esempi parlano chiaro: per cogliere una serie di note come una conclusione è necessario un orecchio allenato, ma se è certamente vero che un simile allenamento può insegnarci a cogliere ciò che prima era per noi muto, non può tuttavia sovrapporsi interamente al dato percettivo: un orecchio allenato è pur sempre un orecchio e non può dunque fare altro che sentire ciò che viene suonato!

A partire di qui è possibile ripercorrere il cammino che abbiamo compiuto per trarre una prima conclusione. Abbiamo detto che apprendere un gioco linguistico vuol dire imparare ad usare determinati esempi in un certo modo; di per sé, tuttavia, il rimando alla situazione intuitiva (all'esempio di per sé preso) non è sufficiente, poiché è sempre possibile accordare ad una data immagine un significato qualsiasi (ivi, § 198). Lo abbiamo già osservato: la forma di un gioco linguistico è autonoma, e tuttavia - per parafrasare una riflessione che abbiamo più volte citato - le condizioni di applicabilità di un gioco linguistico debbono far parte del simbolismo, e ciò è quanto dire che la forma di un gioco linguistico deve essere tale da integrarsi con il sistema delle nostre certezze, con le forme del nostro agire e del nostro percepire. I nostri giochi linguistici più elementari debbono far presa sul fatto che agiamo così e che percepiamo così.

Abbiamo molte volte ripetuto che una giustificazione per i giochi linguistici non si può dare, e tuttavia ciò non significa che ci si debba semplicemente rassegnare alla loro molteplice varietà. Dei giochi linguistici è possibile dare una rappresentazione perspicua, e ciò significa che è in linea di principio possibile ordinarli, costruendo una sorta di mappa che ci permetta di cogliere somiglianze e differenze, e insieme di mostrare la specificità della direzione che determinati giochi linguistici attribuiscono al contesto intuitivo che dominano. Ora una delle caratteristiche del metodo fenomenologico consiste nell'offrirci uno strumento che permette di ancorare la diversità delle forme interpretative alla struttura invariante della Lebenswelt, determinando così il punto di riferimento e l'unità di misura per valutarle e comprenderle. Non vi è dubbio che nella prospettiva wittgensteiniana non vi sia spazio per ancorare i giochi linguistici ad un riferimento extralinguistico; ciò non toglie tuttavia che sia possibile ordinarli muovendo dalla dimensione intuitiva degli esempi e ragionando su di essi. Questo della fenomenologia in effetti ci sta a cuore: il suo porsi come un tentativo di dar forma metodica e coerente ad un ragionamento che muove da esempi, per indicare le diverse direzioni in cui possono essere usati.

In un passo di Della certezza, Wittgenstein osserva che il sistema elementare delle certezze è qualcosa che si riceve dall'osservazione e dall'addestramento, ma che non si impara (ivi, § 279). Si tratta di un'affermazione legittima e condivisibile, e tuttavia non vedo un motivo per cui le cose debbano necessariamente stare così. Certo, noi parliamo di cose materiali e questo gioco linguistico (o più propriamente: la famiglia di giochi linguistici che ruota intorno al concetto di materia) fa presa su un insieme di certezze che non abbiamo imparato, ma che abbiamo acquisito inavvertitamente, vivendo insieme agli altri. E tuttavia ciò che non abbiamo imparato possiamo cercare ora di insegnarlo, ragionando metodicamente sugli esempi e ricostruendo una rete di giochi linguistici che traccino le coordinate dello spazio in cui si muovono i nostri concetti. Di qui la nostra prima mossa: la scelta di un buon esempio che ci guidi nel nostro tentativo di trovare un ordine nei giochi linguistici che hanno a che fare con la materialità e di trovarlo nel loro disporsi nello spazio di risonanza di un'esperienza prototipica.

Così, per quanto possa sembrare poco filosofico, vi invito innanzitutto a lasciar correre lo sguardo e a farlo cadere sui molteplici candidati che ci si offrono per il nostro gioco, poiché natura materiale hanno l'acqua, l'aria, un granello di sabbia, un libro, il nostro corpo, e anche una pietra che vediamo sul greto di un fiume. Non possiamo negarlo: la nostra simpatia cade su quest'ultima proposta, ed è da qui che vogliamo muovere, proponendo insieme qualche ragione per le nostre scelte.

 

 

 

 

 

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