Paolo Spinicci


Il mondo della vita e il problema della certezza
Lezioni su Husserl e Wittgenstein

 

 

 

 

 

 

 

 Lezione ottava

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2. Vi è una struttura invariante del mondo della vita?

 

 

 

 

 

Nelle considerazioni che abbiamo appena svolto ci siamo imbattuti in un'obiezione che ha un suo indiscutibile fondamento: il mondo della vita, e cioè il mondo che esperiamo e in cui viviamo, è una realtà che muta nel tempo e che non può essere disgiunta dalle forme di vita degli uomini. Husserl parla a questo proposito della Lebenswelt nella sua piena concrezione per sottolineare come in questo caso si debbano considerare momenti interni al mondo della vita anche le formazioni di senso che derivano dall'attività soggettiva, sia essa una prassi mitico-espressiva o più propriamente conoscitiva. Ora, proprio in quanto risultato di prassi che possono assumere forme diverse, le formazioni di senso (le teorie scientifiche, per esempio) hanno una loro storicità e una loro mutevolezza: la Lebenswelt nella sua piena concrezione varia dunque con il tempo ed è dunque senz'altro lecito dire che il mondo (il linguaggio) cambia insieme alle forme di vita degli uomini. E tuttavia, la conclusione che di qui si vuol trarre - il mondo della vita è un insieme di credenze in cui nulla è sottratto al mutamento - si scontra con un'ipotesi cui Husserl intende dare il massimo peso: l'ipotesi secondo la quale vi sarebbe una struttura invariante del mondo della vita - un nucleo primario della Lebenswelt che può essere ritrovato al di là e al di sotto degli arricchimenti di senso che intorno ad esso crescono.

Ora, per comprendere quali voci parlino a favore di quest'ipotesi è forse opportuno riesaminare più da vicino l'esempio che abbiamo dianzi discusso: guardiamo alla finestra e diciamo che piove, e questo che è per noi un fenomeno le cui cause ci sono nel complesso note, un tempo doveva apparire carico di presagi e di significati reconditi - quei significati che ci sembra ancora di scorgere nella Tempesta del Giorgione e cui dobbiamo cercare ora di restituire per un attimo la voce. Ecco, la pioggia unisce il cielo alla terra, l'alto al basso, l'etereo al greve, e nel crepitio delle gocce il pensiero mitico ha colto la forma concreta di un dialogo in atto. Quando dio vuole punire gli uomini la sua parola parla nella forma minacciosa del diluvio che sommerge dal cielo le terre, e la mitologia greca ci racconta che Iris, la dea dell'arcobaleno, e cioè la figura mitica di questa visibile forma dell'unione tra l'alto e il basso, era insieme anche la divinità dei messaggi. Ma soprattutto la pioggia poteva essere attesa e colta nel suo significato generativo; poteva essere preparata da un rituale e da sacrifici che ne giustificassero l'avvento - la pioggia poteva apparire come un dono divino. E se le cose stanno così, come negare che il nostro mondo sia davvero un altro, come sottrarsi all'evidenza che ci invita a cercare nella diversità delle forme di vita il fondamento su cui poggiano diverse visioni del mondo? E infine: come non attendersi che il senso comune di oggi appaia domani nelle forme favolose del mito, - di un mito che non avrebbe senso difendere e condividere e che potrebbe trovare ascolto soltanto nei fautori di filosofie oscurantistiche?

Come reagire a queste considerazioni? Innanzitutto, credo, chiedendo di non trarre conseguenze troppo affrettate, poiché si può essere oscurantisti anche celebrando rituali positivistici. Torniamo allora al nostro esempio: all'esperienza arcaica della pioggia. Certo, lo stregone danza per la pioggia ma la prassi magica del rito - ricorda Frazer nel Ramo d'oro - non ha luogo in un momento qualsiasi e nemmeno semplicemente quando i campi sono aridi: la stagione in cui il rito ha luogo è normalmente la stagione in cui le piogge sono comunque già attese. La danza della pioggia si fa quando la stagione delle piogge si avvicina.

Ecco, non possiamo nemmeno fidarci del buon selvaggio - così di primo acchito vorremmo reagire a queste considerazioni. Ma sarebbe un errore, poiché rammentare questa preoccupante coincidenza non significa sostenere che lo stregone sia un imbroglione o che la tribù non sappia che prima o poi le piogge arriveranno: vuol dire solo che le credenze che accompagnano il rito non si comprendono se le si considera come opinioni erronee ma come momenti di un rituale che da un lato non cancella ma anzi presuppone l'immagine consueta del mondo, dall'altro dà vita ad una prassi espressiva che non pretende di spiegare i fenomeni ma solo di commentarne la vicinanza e la centralità per la vita. Certo, anche al rito si crede, e questo lo accomuna alle molte opinioni che di fatto condividiamo e in cui crediamo, ma la diversità della credenza non deve sfuggirci: solo perché vi è una diversa forma del credere possiamo cedere alla logica del rituale senza per questo rinunciare alla certezza del mondo, anche se l'una sembra togliere l'altra e l'altra l'una. La credenza nei miracoli convive con la certezza della fisica anche nella mente sottile di Pascal, e lo stupore del filosofo che non riesce a spiegarsi come una contraddizione così evidente possa essere tollerata da un simile genio è in parte un tributo all'ambiguità del verbo "credere".

Così, il rito che prepara la pioggia può convivere con ciò che della pioggia la percezione e l'esperienza ci insegnano - il suo essere un evento periodico che appartiene alla causalità intuitiva della natura e che ci attendiamo quando il cielo si fa pesante e si copre di nuvole. Ed un analogo discorso vale per i rituali che precedono di poco il sorgere del sole e che pure sono investiti di una valenza magica. Il sole che sorge deve essere aiutato nel suo sforzo poiché da esso dipende visibilmente la nostra vita, e ciò chiede che ci si attenga a un rituale, che si compiano certe azioni. E tuttavia dobbiamo davvero pensare che i selvaggi dubitino davvero che il sole tra poco sorgerà, e sorgerà comunque? Dobbiamo davvero credere che la massima dello scetticismo accademico - domani il sole potrebbe non sorgere - sia la divisa teorica dei popoli primitivi? La naturalità del sorgere e del tramontare del sole non è in questione, e l'ipotesi che non scenda la notte non è nemmeno presa in esame; il punto è un altro: è che questo fatto è importante per noi uomini e sentiamo il bisogno di partecipare a questo evento. Se non lo facessimo ci sentiremmo in colpa - un po' come ci capita di sentirci in colpa quando il sole tramonta sul mare e noi abbiamo finito il rullino delle fotografie. Per dirla con la consueta ironia di Wittgenstein:

di mattina, quando sta per sorgere il sole, gli uomini celebrano i riti dell'alba - ma non di notte quando, molto semplicemente, accedono lampade (Note sul "Ramo d'oro" di Frazer, Adelphi, Milano 1993, p. 34).

Il sole sorgerà e con esso la luce - questo lo sappiamo noi, come lo sanno i popoli primitivi. E sorgerà proprio quando si vede che sta per sorgere, ma ciò nonostante può essere importante accompagnarlo nella sua fatica con un rituale - può essere importante farlo per quei popoli che danno spazio ad un agire che non si fonda su opinioni - una cosa, questa, che in misura maggiore o minore facciamo tutti.

Di qui la conclusione che vogliamo trarre: il gesto arcaico dello stregone che invoca la pioggia o il sorgere del sole implica certo una differente forma di vita rispetto alla nostra, ma si lega ad una percezione dei nessi intuitivi del mondo che non può essere affatto descritta nei termini di una radicale alterità. Anche per le tribù primitive vi è uno stile intuitivamente causale del mondo, ed è solo perché il mondo è comunque presente per gli uomini come una compagine intuitiva in cui le cose e gli eventi si susseguono secondo un insieme di nessi intuitivi di natura preteoretica che diviene possibile poi sottolineare emotivamente e ritualmente la presenza di quei fenomeni che sono particolarmente vicini alla nostra vita. Dopo aver trafitto in effigie il nemico - osserva ancora Wittgenstein - il selvaggio si arma di frecce letali (ivi, p. 22).

Del resto, la constatazione in sé legittima della storicità del mondo della vita o, se si preferisce, della difficoltà in cui talvolta le traduzioni si imbattono non può farci chiudere gli occhi sul fatto, ben più mirabile, che le traduzioni sono possibili, che gli stessi giochi linguistici si giochino da un'infinità di anni e nelle più diverse famiglie degli uomini. Così, è forse opportuno rammentare che i greci non avevano un nome per il blu o per il verde, ma il disappunto per questa inattesa povertà lessicale non deve farci dimenticare che comprendiamo così bene quel mondo così lontano, e che lo comprendiamo anche quando ci dice che il mare è del colore del vino e che i capelli di Ulisse sono del colore del giacinto. Certo, le differenze ci colpiscono, ma proprio perché si manifestano sul terreno di un tacito accordo, perché ci sembra davvero ovvio che per le nostre parole importanti ogni lingua abbia in serbo un suono. La terra, l'acqua, il cielo, la pietra e il sasso, il colore e il peso, il rumore e il suono, il cibo, il gioco, il riso, il tu, l'io, il noi - per tutte queste cose e per infinite altre la nostra lingua ha pronta una parola e noi ci attendiamo che ogni lingua compia gli stessi servigi e che indichi la via per praticare in qualche modo quei giochi linguistici: per queste parole pretendiamo che il vocabolario ci dia una risposta, poiché questi giochi linguistici debbono potersi giocare in ogni lingua, anche se forse non nella stessa maniera. Ma ciò che sembra dovuto non è per questo meno interessante dal punto di vista teorico, ed io vi invito allora formalmente a stupirvi della possibilità della traduzione, del fatto che sia davvero possibile capire con un'esattezza mirabile ciò che uomini in luoghi diversi ed in diversi tempi hanno detto, pensato e sofferto.

Ora basta riflettere sulle considerazioni cui abbiamo cercato di dar voce per comprendere il senso che deve essere attribuito alla lunga citazione husserliana che abbiamo dianzi proposto. Qui Husserl sottolinea la storicità e quindi anche la mutevolezza del mondo della vita, la cui ricca compagine di senso varia di tempo in tempo e di luogo in luogo - su questo non vi sono, né potrebbero esservi dubbi. E tuttavia non rinuncia per questo alla tesi secondo la quale deve esserci egualmente una struttura invariante del mondo così come lo esperiamo - una struttura invariante cui tanto più ci si approssima quanto più si abbandona il mondo come prodotto della cultura e del sapere per accostarsi al terreno dell'immediatezza percettiva. Nell'affrontare questo nodo teorico Husserl è estremamente deciso; per Husserl non vi sono dubbi: una struttura invariante del mondo della vita vi è, e coincide con la sua dimensione puramente intuitiva - al di là della mutevolezza dell'immagine culturalmente determinata del mondo vi è la struttura stabile che di esso la percezione ci consegna. Sui problemi che sono impliciti in questa posizione dovremo tra non molto ritornare poiché è indubbio che la fiducia husserliana sulla possibilità di accedere al terreno dell'immediatezza percettiva lo rende insensibile alle difficoltà che si celano nel fatto che comunque ogni descrizione avviene in un linguaggio e si avvale quindi di un insieme di giochi linguistici che debbono essere necessariamente presupposti. E tuttavia, riconoscere questo fatto non equivale ancora a sostenere che si debba negare la sensatezza dell'indicazione che Husserl ci propone e che è anzi in sé relativamente ovvia: quanto più ci accostiamo al terreno degli esempi intuitivi, tanto più facile diviene raggiungere il terreno di un accordo che vada al di là delle differenze storiche e culturali, anche se questo non vuole ancora dire che sia possibile accedere ad una descrizione in cui si faccia davvero qualcosa di diverso dall'attirare l'attenzione sulla specificità della grammatica di certi giochi linguistici. Ma non significa nemmeno che ci si debba sporgere sul terreno di chi pretende di narrare la storia della percezione ricavandola da una qualche oscillazione di vocabolario. Per una simile conclusione non ci sono argomenti che parlino in modo persuasivo, e tanto meno ve ne sono per la pretesa che ogni linguaggio racchiuda in sé una visione del mondo da cui non potremmo mai liberarci, poiché non è comunque possibile sfuggire dalla presa della propria fattuale storicità. Come se non fosse possibile imparare un nuovo gioco linguistico, come se non sapessimo insegnare o apprendere nuove distinzioni, e come se questa possibilità non si radicasse infine sul fatto che quelle distinzioni sono appunto possibili e mettono in luce qualcosa che poteva essere colto e che ci riconduce, ricostruendolo, ad un terreno comune.

Ma, si dirà, come possiamo noi uomini di oggi condividere ancora il mondo percettivo dei nostri antenati? Come possiamo, per esempio, credere di vedere ancora lo spazio che essi abitavano - ora che noi lo percorriamo con mezzi sempre più celeri e che abbiamo imparato ad alzarci nel cielo, fino al punto di trasformare la visione del paesaggio - della terra su cui saldamente poggiamo i piedi - nella visione del pianeta - della Terra che è parte del sistema solare e che dobbiamo dunque scrivere proprio così, con la lettera maiuscola? Non dobbiamo, in altri termini tenere conto del fatto che l'esperienza vissuta della lontananza muta nel tempo e che è quindi opportuno sostenere che vi è una storia della lontananza e della sua percezione? Naturalmente molto dipende dal significato che si attribuisce alla parola "percezione" ma è, credo, plausibile sostenere che quanto più ci liberiamo di un impiego metaforico del termine e distinguiamo astrattivamente ciò che appartiene alla scena percettiva dagli orizzonti di senso che di fatto possono ma non necessariamente debbono arricchirla, tanto più il momento dell'invarianza si impone sulla dialettica delle differenze.

Anche su questo dovremo ritornare, poiché l'analisi fenomenologica si pone anche come un tentativo di circoscrivere con esattezza il campo di invarianza del mondo della vita, la sua struttura generale. Ma prima di argomentare filosoficamente vorrei far risuonare per un attimo le corde della persuasione, per contrastare almeno un poco il fascino di un'opinione diffusa - l'opinione della relatività della percezione. Voglio in altri termini proporvi il racconto di un antichissimo mito sumero, di una storia che è vecchia quasi come la scrittura e che narra la vicenda oscura di un re di nome Etana che, per avere un erede, deve cibarsi della pianta della vita. Simili piante, si sa, non crescono dappertutto, ed Etana deve avventurarsi in un temibile viaggio, sospeso tra i limiti estremi dell'alto e del basso: una grande aquila, che il re libera da un profondo abisso nelle viscere della terra, deve portarlo sino alle altezze immense del cielo, e così noi lettori ci imbattiamo in un'antichissima descrizione di un volo negli spazi siderali, di un volo che infine ci conduce ad una vera e propria fantasia del nostro pianeta che certo è ignara di tutto ciò che noi oggi sappiamo sulla forma del mondo, ma che può egualmente apparirci persuasiva poiché si fonda sul fondamento invariante della struttura prospettica della visione. Quasi cinquemila anni fa la lontananza dal pianeta Terra doveva apparire così - come anche a noi apparirebbe, e doveva caricarsi degli stessi significati metaforici che oggi le attribuiremmo e che sono comuni a tante contemplazioni dall'alto del luogo delle nostre passioni. Così sollevatolo ad una lega dal suolo

l'aquila disse a Etana: / "Amico mio, guarda laggiù che cosa è ora la Terra, / e scruta il mare e guarda i suoi confini: / la Terra sono quelle alture / e il mare è un ruscello". / Poi, a due leghe dal suolo, / l'aquila disse a Etana: / "Amico mio, guarda laggiù che cosa è ora la Terra! / La Terra è un'altura". / Poi, dopo averlo sollevato di una terza lega, / l'aquila disse a Etana: / "Amico mio, guarda laggiù che cosa è ora la Terra! / Il mare è ormai solo una pozza d'acqua".

 

 

 

 

 

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