Le parole della filosofia, III, 2000

Seminario di filosofia dell'immagine


La forma della cornice e le sue funzioni

Contributi per una fenomenologia dell'immagine

- Paolo Spinicci -

 R. Magritte, Il mese della vendemmia

1. La cornice e la grammatica degli oggetti immaginativi

1. Il titolo che abbiamo proposto per questa relazione può suscitare qualche perplessità: si parla delle funzioni della cornice e le si connette alla loro forma, - un termine questo che viene proposto proprio così, al singolare, anche se le cornici hanno molte e diverse forme, cui corrispondono funzioni storicamente differenti. Di questa dimensione storica del problema si deve essere consapevoli, se si non vuole correre il rischio di contrabbandare le molteplici poetiche della cornice con le linee essenziali della sua fenomenologia. E tuttavia, anche se la storia dell'arte può anche in questo caso insegnarci molte cose, dobbiamo soffermarci dapprima su considerazioni di carattere più elementare, che ci permettano di comprendere che cosa possiamo imparare dalle cornici riflettendo soltanto sulla loro forma.

Ora, che cosa sia una cornice non sembra difficile dirlo - se non ci lasciamo spaventare dal rischio della banalità: la cornice è un oggetto rigido che contorna e racchiude un'immagine e che in parte si sovrappone alla tela dipinta, in parte le permette di incastonarsi in una struttura più solida su cui la tela poggia. Si tratta di una ovvietà, su cui tuttavia è forse opportuno soffermarsi almeno per un attimo, poiché proprio a partire di qui è possibile mettere in luce la prima e più ovvia funzione delle cornici: la cornice ha innanzitutto una funzione di protezione nei confronti dell'immagine poiché di fatto la rende meno esposta al contatto con gli oggetti che la circondano. Temo che questa sia la funzione principale della cornice, e tuttavia in queste considerazioni così prosaiche è possibile scorgere un aspetto interessante. La cornice che circonda la tela e che fa dell'immagine un quadro racchiude in sé una possibilità nuova rispetto all'affresco: libera la raffigurazione dalla sua inerenza ad un luogo determinato e fa della tela un oggetto maneggevole che si può collocare liberamente, e che può inscenare in luoghi sempre nuovi lo spettacolo di cui è latrice. Potremmo forse esprimerci così: la cornice trasforma l'immagine in un quadro, ed un quadro è un'immagine che si è definitivamente emancipata dal luogo della sua manifestazione. La protezione che la cornice offre all'immagine assume così il significato di un colpo di forbice che separa la scena dipinta dal suo necessario apparire in un luogo prestabilito dello spazio reale. Nel farsi quadro l'immagine si isola dal mondo che la circonda e si sottrae ad un ambiente - la Chiesa, il Palazzo, la Città - che ne definisce dall'esterno la funzione e le condizioni di ricezione. Se dunque la cornice protegge, la sua è una protezione che mira a sancire l'assolutezza della cesura che separa l'immagine da ciò che la circonda.

Ma non è tutto. Se si sostiene che la cornice trasforma l'immagine in quadro, si deve poi rammentare che il quadro è a sua volta un'immagine che assume la forma di un oggetto. All'affresco che non può liberarsi dal suo essere un'immobile superficie, fa eco il quadro - questa cosa che ha guadagnato una sua percepibile tridimensionalità e che può essere afferrata e spostata di luogo in luogo, comprata e venduta. E tuttavia, anche nel suo essere un oggetto, il quadro porta con sé la sua natura ambigua di cosa che racchiude in sé un momento rappresentativo: l'immagine - e soprattutto l'immagine che raffigura un contenuto alto - ha dunque bisogno di una cornice riccamente ornata che la circondi e che la protegga dal contatto con una realtà inadeguata. Ed è anche in virtù di questa protezione, che è offerta esclusivamente dalla ricchezza dell'ornamento, che il quadro può trasformarsi in una preziosa reliquia, in qualcosa che ha la tangibilità degli oggetti e la spiritualità delle immagini. Se la cornice, ornandosi, può avere una funzione di protezione è dunque perché il quadro è in se stesso una cosa preziosa.

È sufficiente fermarsi un poco su queste considerazioni per rendersi conto che la funzione di protezione e di ornamento alludono ad un orizzonte di problemi che è forse meno banale di quanto non fossimo da principio disposti a concedere. E tuttavia, anche se l'affermarsi della cornice è probabilmente legato proprio al diffondersi del quadro come forma di raffigurazione che rinuncia ad avere un solo luogo, è opportuno osservare che la definizione da cui abbiamo preso le mosse è di fatto viziata proprio dal suo sorgere in stretta connessione con la forma del quadro. Anche un affresco può avere una cornice, sia essa formata da un qualche elemento di natura architettonica o da un disegno ornamentale, e su questo fatto dobbiamo riflettere perché ci mostra con chiarezza che una qualche funzione la cornice deve averla anche quando non le si può più attribuire il compito di proteggere fisicamente l'immagine e di liberarla dalla sua appartenenza ad un unico luogo. In altri termini: la cornice deve esercitare una funzione anche quando riconosciamo che essa non è altro che una forma chiusa percepibile che delimita e circoscrive l'immagine, senza per questo appartenervi - un'affermazione quest'ultima su cui è opportuno riflettere un poco, poiché la sua apparente chiarezza racchiude in realtà più di un possibile equivoco.

Un primo equivoco può essere facilmente messo da parte. Dire che la cornice non appartiene all'immagine non significa sostenere che essa faccia tutt'uno con la parete che ospita la scena dipinta: di fatto la cornice è parte del quadro ed è comunque un artefatto (un disegno, una struttura architettonica, ecc.) che sorge in stretta connessione con l'universo figurativo. La cornice non appartiene alla raffigurazione ma c'è solo in virtù di quest'ultima, e Alberti ci invita anzi a tracciarla prima ancora di dar vita al primo gesto propriamente figurativo. Della cornice si deve dunque parlare come di un momento che appartiene al quadro o all'affresco, e tuttavia perché questa constatazione assuma un senso è necessario chiedersi innanzitutto a quale titolo la cornice vi appartenga e quale sia poi la ragione che spinge l'immagine a cercarsi una cornice.

Una prima risposta alla nostra prima potrebbe suonare così: la cornice è parte del quadro come lo sono la tela e i pigmenti, e vi è chi a partire di qui ha ritenuto opportuno sostenere che la cornice è appunto uno dei momenti che appartengono alla dimensione segnica del quadro, al suo dispositivo di presentazione. Ora, è caratteristico di ogni segno il suo avere una dimensione transitiva - il segno rappresenta qualcosa di diverso da sé - ed una dimensione riflessiva - il segno presenta se stesso come segno, come qualcosa la cui funzione consiste nel rimandare ad altro. Dire che la cornice appartiene alla dimensione segnica del quadro significherebbe allora sostenere che essa è riconducibile alla dimensione riflessiva del segno, al suo presentarsi. E a favore di questa tesi (che racchiude in sé un elemento di verità) sembra schierarsi almeno un fatto importante: di un quadro ricordiamo il soggetto, i colori, la forma compositiva - la cornice invece solitamente ci sfugge. Un'analogia sembra dunque imporsi: di un libro ricordiamo (dovremmo ricordare) ciò che ci dice, non l'aspetto dei caratteri in cui è scritto, e questo accade perché l'attenzione va dal segno a ciò che da esso è inteso. E se le cose stanno così, perché non cogliere nella tendenza della cornice a restare nell'ombra una riprova del suo carattere segnico? Proprio come la tela e i pigmenti, anche la cornice è tema di uno sguardo che rimanda ad altro.

Si tratta, tuttavia, di un'analogia fuorviante che cresce su un terreno che è già, di per se stesso, ricco di ambiguità - il terreno della riconduzione della raffigurazione pittorica al concetto di segno. Di questo impiego traslato del concetto di segno ci si può in qualche misura avvalere: ogni raffigurazione si fonda su un insieme di schemi sensibili e di tecniche figurative che può essere colto insieme alla scena raffigurata, poiché di fatto non è null'altro se non quella particolare modalità in cui un tema si realizza pittoricamente. In un quadro di Seurat vedo la riva della Loira e gli uomini che la affollano, ma vedo anche il gioco delle macchie di colore che dà vita a quella scena: il disegno si stempera nel segno che gli dà vita. Ma da questo uso innocente della parola "segno" dovremmo guardarci se davvero di qui si volesse muovere per sostenere che un quadro è un segno che sta per qualcosa d'altro. Esprimersi così vorrebbe dire falsare la situazione fenomenologica della percezione di immagine che non è percezione di pigmenti che rimandino ad una qualche scena proprio come il segno proposizionale rimanda allo stato di cose inteso, ma è invece l'atto percettivo che ci permette di cogliere un oggetto nuovo - la scena dipinta, appunto. Sulla tela vediamo un paesaggio dipinto, non un insieme di segni, anche se questo naturalmente non toglie che da un lato lo spettatore accordi un senso alla scena che vede disponendola sullo sfondo della propria esperienza dello scorrere lento dell'acqua e del tempo in una giorno d'estate e che, dall'altro, possa imparare a cogliere nella scena i tratti di cui si compone, la tecnica figurativa che ne è all'origine. Sottolineare questo punto è importante perché ci permette di comprendere meglio ciò che in quell'analogia fin da principio non convince: l'eccessiva disinvoltura con cui sembra possibile legare gli uni agli altri momenti così diversi all'interno di un quadro. La cornice - e lo vedremo meglio in seguito - può anche fungere da segno, ma proprio per questo non raffigura niente; colori e tela, d'altro canto, sono ciò che permette alla scena dipinta di apparire all'interno dei margini della cornice, ma non sono segni che rimandino alla scena dipinta, poiché questa scena è l'unico oggetto che propriamente vediamo e che vediamo raffigurato così.

Possiamo di qui trarre la nostra prima faticosa conclusione: la cornice appartiene sì al sostrato materiale dell'immagine, ma vi appartiene come un momento che non ne determina la dimensione figurativa. Anche se è parte del quadro, la cornice è un oggetto reale cui è interamente sottratta la possibilità di far parte dello spazio figurativo: la cornice è appunto il limite esterno dell'immagine, non una sua ultima propaggine. Lo spazio figurativo è solo all'interno della cornice che si limita dunque a circoscrivere l'immagine e a determinarne il luogo. Per dirla parafrasando Aristotele: la cornice è il primo limite reale dello spazio immaginario della figurazione, è il contenente che assegna un luogo a ciò che racchiude.

Di qui si deve muovere per dare una risposta alla nostra seconda domanda. Se l'immagine in qualche misura avverte bisogno di una cornice è perché la cornice sottolinea con la sua presenza intuitiva il risultato del gesto che, circoscrivendo nello spazio reale lo spazio immaginario, gli assegna il luogo che gli spetta. Come il cerchio tracciato sulla sabbia descrive lo spazio in cui si svolge un rituale, così la cornice racchiude nello spazio reale lo spazio figurativo e sembra quasi rendere intuitivamente presente il gesto che istituisce quella nuova forma della spazialità. Certo, se ci poniamo nella prospettiva di chi costruisce il quadro la cornice, lungi dal sottolineare il gesto istitutivo dell'immagine, è un di più che sorge quando i giochi sono ormai conclusi: terminato il quadro, il pittore o l'acquirente scelgono la cornice, lasciandosi ovviamente guidare dalle dimensioni e dalla forma del dipinto. Per chi descriva il quadro nella sua dimensione fenomenologica (che è poi la dimensione dello spettatore) le cose mutano: in questo caso la cornice non sottolinea più qualcosa che si aggiunga all'immagine quando quest'ultima è ormai compiuta, ma è il contorno visibile che mostra il discrimine che divide il nostro spazio consueto - lo spazio reale - dallo spazio figurativo. Ma ciò è quanto dire che la cornice mette in scena qualcosa che è prima della raffigurazione: la cornice contrassegna e rende apertamente visibile il luogo di accessibilità dell'immagine, la sua dimensione e la sua forma. Lo abbiamo osservato precedentemente: la cornice - questo diaframma che, creando un varco nello spazio reale, permette allo sguardo di cogliere la scena dipinta - pone l'accento sul fatto che proprio qui, di fronte a noi, è divenuto accessibile uno spazio figurativo e pone insieme davanti ai nostri occhi l'apertura dello spazio reale che lo racchiude. Ora, non vi è dubbio che il diaframma che apre lo spazio dell'immagine rendendolo percettivamente accessibile non appartenga alla dimensione figurativa del quadro, proprio come non appartiene allo spettacolo teatrale il movimento delle cortine che rende finalmente visibile il palcoscenico. Ciò non toglie tuttavia che l'aprirsi e il chiudersi del sipario proprio come la presenza della cornice sottolineino un aspetto che appartiene allo spazio immaginario che si apre sotto i nostri occhi: il suo essere accessibile qui ed ora nel luogo circoscritto dall'arco di scena o dai quattro legni della cornice. Non è un caso allora se il quadro si carica di un elemento reale - la cornice - che non ha una funzione rappresentativa: grazie ad essa l'immagine ribadisce la sua accessibilità a partire da uno spazio che non è il suo. Di qui, da questa seconda funzione della cornice, dobbiamo muovere per far luce su ciò che caratterizza la struttura elementare del suo concetto.

2. Nelle riflessioni che abbiamo appena svolto la cornice si è legata ad una funzione ben definita: alla cornice come limite esterno dell'immagine spetta infatti il compito di determinare il luogo in cui lo spazio figurativo diviene accessibile. Basta tuttavia riflettere sulla nozione di accessibilità dell'immagine perché si faccia avanti una serie di problemi in cui si manifesta con chiarezza la stretta connessione che lega la cornice alla natura dello spazio figurativo. Poniamo sulla tela una cornice e diciamo che essa circoscrive il luogo in cui lo spazio figurativo si fa visibile, ma è evidente che una simile affermazione presuppone che in linea di principio non abbia senso parlare del discrimine tra spazio figurativo e spazio reale semplicemente come di un confine che separa due regioni contigue dello spazio. Al di qua e al di là della cornice non si distende un'unica res extensa, ma due spazi diversi, il cui rapporto è segnato da una differenza ineliminabile: percepire una rappresentazione pittorica in quanto tale significa infatti essere percettivamente consapevoli del fatto che non vi sono né possono esservi relazioni spaziali tra gli oggetti che circondano il quadro e ciò che il quadro rappresenta. Per dirla con un esempio: il San Giorgio che uccide il drago di Giovanni Bellini è nella predella di un quadro famoso, appeso sul muro di un palazzo di Pesaro, ma il drago che vedo dipinto non è in quel palazzo e non è vicino alla scalinata che dà accesso alla pinacoteca o a pochi passi dall'interruttore della luce. Nessuno si esprimerebbe così, e del resto nel luogo verso cui quelle descrizioni ci orientano il drago non può esserci, poiché in quel posto vi è già qualcos'altro - la tela che lo ospita.

Non vi è dubbio che questo rapporto di reciproca estraneità tra il mondo reale e il mondo raffigurato affondi le sue radici nella natura degli oggetti immaginativi: anche nei giochi dei bambini il divano che è diventato una nave è infinitamente lontano dal tavolo dove si fanno i compiti; e tuttavia nel nostro caso qualcosa di nuovo accade: la cesura che la grammatica delle immagini ci insegna a tracciare acquista una maggiore pienezza intuitiva grazie alla cornice che corre sopra la scena dipinta, e che proietta sulla dualità degli spazi lo schema intuitivo dell'antitesi tra interno ed esterno. L'immagine che si perde sotto il profilo della cornice si dispone percettivamente come se fosse sita in un mondo che possiamo soltanto contemplare dalla finestra che si apre nel quadro. E se è certo che la metafora rinascimentale della pittura come una finestra aperta sul mondo si fa tanto più persuasiva quanto più l'immagine guadagna in profondità, resta comunque vero che lo spazio figurativo si spinge sempre almeno un poco al di là della tela che lo ospita. Di qui una nuova funzione della cornice, una funzione che si ravviva a seconda della profondità intuitiva dell'immagine, ma su cui è comunque opportuno richiamare l'attenzione: nel suo correre sopra i margini dell'immagine la cornice rende invisibile ed inoperante la linea che divide la tela dalla parete, suggerendo così all'intuizione il pensiero dell'alterità degli spazi che ospitano il mondo dipinto e il mondo reale. Tra due regioni contigue e complanari corre un confine, ed il confine è una linea che separa ciò che altrimenti potrebbe essere unito e che da sola non può interrompere la trama delle relazioni spaziali; diverso è il taglio che la cornice ci aiuta a vedere nel quadro: nel suo disegnare la finestra attraverso la quale la scena dipinta ci appare, la cornice cancella la linea di confine che accomuna la tela alla parete che la ospita. Così, se la tela è il luogo in cui lo spazio dell'immagine si fa accessibile, la cornice è il mezzo intuitivo che ci aiuta a vedere quello spazio in una lontananza incolmabile.

Ma in ciò che abbiamo appena detto vi è di più. Sottolineare l'alterità dello spazio figurativo vuol dire anche rammentarne l'assolutezza o, come potremmo senz'altro esprimerci, la sua radicale chiusura. Proprio come una novella, anche un quadro ha un inizio ed una fine assoluti e la cornice è lo schema che dà forma intuitiva all'autonomia dello spazio figurativo. Il pittore dipinge la tela e costruisce, dipingendolo, un mondo immaginario, la cui unitaria presenza è poi sancita dalla cornice - da questa linea chiusa che fissa al suo interno lo spazio di un'oggettualità. Proprio come sul foglio la prima linea chiusa che un bambino traccia crea lo schema intuitivo che ci permette di cogliere un oggetto, così la cornice, che delimita l'apertura che nel mondo reale rende accessibile il mondo dipinto, sottolinea l'indipendenza di principio dello spazio immaginario, il suo porsi come un oggetto concluso. Certo, la cornice può nascondere parte della scena e lo sguardo che la coglie non può fare a meno di impossessarsi, seppure nei limiti di una determinabile indeterminatezza, anche di ciò che sembra stare al di là della cornice e che si annuncia nell'interrompersi visibile delle forme dipinte. E tuttavia, se non ci si lascia irretire dalle parole, è facile scorgere come l'apertura dell'immagine dipenda proprio dall'assolutezza della sua chiusura. L'immagine sembra andare al di là della tela grazie ai dinamismi percettivi che animano il senso di ciò che è propriamente raffigurato; tali dinamismi tuttavia hanno mano libera nel determinare il senso percettivo dell'immagine solo perché lo spazio della raffigurazione è separato dallo spazio reale che non può così deludere le attese che l'immagine suggerisce: se la presenza materiale della parete non impedisce alla scena dipinta di continuare non vista, ma percettivamente presente, al di sotto della cornice, ciò accade perché lo spazio dell'immagine risponde soltanto a se stesso e alla sua regola, e non si cura di ciò che accade di là da esso. Che, anche in questo caso, la cornice ci aiuti a vedere ciò che la grammatica dell'immagine ci chiede è facile scorgerlo: celando allo sguardo i limiti dell'immagine, la cornice permette allo spazio figurativo di chiudersi rispetto ai dinamismi percettivi che animano lo spazio che l'attornia. Ma ciò è quanto dire che la cornice dà maggiore risalto intuitivo all'autonomia di significato degli oggetti immaginativi, che sono appunto caratterizzati dal loro rispondere soltanto alle domande che essi stessi si pongono. Proprio come in un racconto le clausole di apertura e di chiusura si fanno garanti del fatto che tutto è stato detto (anche ciò che ragionevolmente si deve ritenere taciuto), anche in un quadro la cornice racchiude un mondo a parte, che deve essere esplorato tacitando tutti gli interessi che non siano suscitati dalla regola percettiva che si fa valere nella scena dipinta. Così, se al di là della cornice vi è una realtà aperta e instabile che trae il suo mutevole senso dalla varietà degli interessi che la animano, al suo interno vi è invece uno spazio chiuso che chiede di essere colto soltanto a partire da ciò che ospita. E ciò è quanto dire che la cornice si assume il compito di contrassegnare l'autonomia di significato degli oggetti immaginativi, la loro pretesa di un senso compiuto che si radica nella loro acontestualità.

3. Prima di addentrarci in un nuovo aspetto del nostro problema, è forse opportuno rammentare brevemente le conclusioni cui siamo giunti. Abbiamo preso innanzitutto le mosse da una descrizione della cornice, per riflettere poi sulle sue diverse funzioni e sul nesso che esse stringono con la natura degli oggetti immaginativi e quindi, in modo particolare, con l'immagine che la tela pone sotto i nostri occhi. Questo nesso si è rivelato centrale e ad una più attenta analisi la cornice si è venuto mostrando nella sua funzione ausiliaria: le cornici sono mezzi che ci aiutano a vedere la scena dipinta alla luce della grammatica degli oggetti immaginativi, di quel gioco linguistico cui siamo sin da bambini addestrati e che ci invita a mettere le virgolette dell'immaginazione alla pretesa esistenza di ciò che un gioco, un racconto o uno spettacolo teatrale ci presenta. Mettere la cornice a una tela significa allora predisporre uno schema intuitivo che sorregge la nostra percezione nel suo compito: il compito di adattarsi al gioco linguistico della ricezione estetica. E ciò è quanto dire che la cornice non ha solo una funzione ornamentale, ma è anche un vehiculum imaginationis, uno strumento per condurre la percezione di immagini verso la meta che le compete.

van Hoogstraten, Trompe l'oeil

E tuttavia sostenere che la cornice ha una funzione ausiliaria e che il suo esserci è quello di un mezzo che ci consente di ribadire percettivamente una distinzione che dobbiamo comunque tracciare significa anche porre l'indice sul fatto che un dipinto può fare a meno della cornice. Un quadro senza cornice può sembrarci spoglio e stranamente incompleto, ma sarebbe ridicolo sostenere che il mondo figurativo che la tela ospita corre il pericolo di vedersi travolgere dalla realtà che lo attornia. Una favola non diventa un fatto di cronaca se la narrazione "dimentica" le clausole di apertura e di chiusura di cui solitamente si avvale e le porte dell'immaginazione si aprono egualmente anche se nessuno pronuncia la formula consueta che dice ad alta voce ciò che già tutti sappiamo - che di una favola appunto si tratta. Così, se ci ostiniamo a ripetere il nostro "c'era una volta..." non è per spalancare una porta che si aprirebbe comunque, ma solo per far sentir forte il rumore dei cardini e per assaporare il piacere di quel dischiudersi. Ora, questo rumore talvolta deve tacere, se non si vuole precipitare ogni narrazione nel mondo protetto della favola, e qualcosa di simile accade anche alle cornici cui non sempre si può concedere uno spazio intorno all'immagine. Così nei trompe l'œil alla visibilità delle cornici dipinte si deve necessariamente contrapporre l'assenza o la sostanziale impercettibilità della cornice reale, per la cui funzione non vi è spazio in un'arte che ha la sua ragion d'essere in quel gioco con le apparenze in cui realtà e finzione sembrano momentaneamente confondersi. Ma non è solo sotto il segno dell'illusione che la cornice è chiamata a ritrarsi, e forse il modo migliore per rendersene conto è rammentare che proprio nei quadri dell'autore che più di ogni altro è lontano dalla possibilità di una lettura illusionistica - mi riferisco a Piet Mondrian - per le cornici non vi è posto.

E non a caso. Per Mondrian la pittura astratta non è rinuncia a rappresentare a suo modo il reale, ma è anzi il tentativo di liberare lo spazio e le sue forme dai capricci dell'individualità, dall'ostinata persistenza degli oggetti in una forma peculiare che li vincola all'irripetibilità dell'esistenza, sottraendoli ad una regola più astrattamente universale. L'intreccio ordinato di linee che, nei quadri di Mondrian, sostituisce le forme delle cose non vuole proporci il ritmo che dà respiro ad uno spazio fantastico, ma intende far vedere quale sia la forma universale ed astratta dello spazio, - quella forma che sfugge allo sguardo di chi non sa abbandonare la propria particolare prospettiva sulle cose, il proprio radicamento in una peculiare situazione emotiva ed affettiva.

P. Mondrian, Composizione

E se le cose stanno così, se il quadro è parte di una poetica che affida allo spazio figurativo il compito di porsi come un affioramento dello spazio reale, di quello spazio che solo dobbiamo pensare che sia, come potremmo poi racchiuderlo in una cornice senza tradire così le istanze espressive dell'opera? Certo, per quanto peso si possa attribuire alle dichiarazioni di poetica del neoplasticismo, sarebbe un errore credere che per i quadri di Mondrian non valgano le regole che delineano la grammatica degli spazi figurativi: le ortogonali che fissano la trama astratta di uno spazio liberato dalle storture e dai capricci della vita sono e restano innanzitutto il risultato di un gesto espressivo, di una decisione esemplare che è insieme un invito ad assumere un atteggiamento di vita, uno stile esistenziale dominato dall'esigenza di una grande quiete - di un silenzio immobile reso necessario dalla consapevolezza della natura tragica dell'individualità del vivere. Nei quadri di Mondrian la cornice non deve esserci, ma questo divieto assume il suo senso e la sua urgenza dalla constatazione che ciò che è negato sul terreno della poetica è comunque già dato sul piano grammaticale.

Sul nesso che lega la cornice alle poetiche dell'astrattismo novecentesco vi sarebbero certo molte altre cose da dire, e tuttavia - piuttosto che immergermi in un tema tanto ampio e complesso - vorrei cercare di trarre da questa rapida digressione la conferma di una conclusione di carattere generale cui abbiamo dianzi accennato: le immagini possono esistere senza la cornice ed ogni tentativo di cogliere nella presenza della cornice null'altro che il porsi della differenza tra oggetti immaginativi ed oggetti reali deve essere fin da principio colto nella sua inadeguatezza. Senza la cornice una raffigurazione resta una raffigurazione, e nulla mette effettivamente in questione la sua natura di oggetto immaginativo: su questo non credo vi sia spazio per un dubbio legittimo. E tuttavia nel riconoscere che la cornice può ma non necessariamente deve esserci è implicita una duplice tesi. La cornice può esserci: la natura delle raffigurazioni è tale da poter sostenere intorno a sé una cornice e questa possibilità ci invita a cercare nella cornice innanzitutto uno strumento per sottolineare e rendere visibile la grammatica degli oggetti immaginativi. Di questo visibile sostegno l'immaginazione può avere bisogno: il gioco linguistico della finzione è un gioco che deve essere appreso e la cornice appartiene in qualche misura ad una propedeutica della ricezione delle raffigurazioni in quanto tali.

Ma la nostra digressione su Mondrian e il trompe l'œil ci invita a trarre una seconda conclusione: nel senso di quelle considerazioni è infatti implicita la constatazione che nella riflessione sulla cornice la dimensione grammaticale sulla natura dello spazio figurativo trapassi necessariamente in un insieme di considerazioni sulla poetica delle immagini e sul loro porsi come oggetti di uno sguardo animato da una molteplicità di attese espressive. Ed è ovvio che sia così. Un quadro non è soltanto un oggetto che racchiude in sé un mondo posto tra le virgolette dell'immaginazione: è anche un oggetto che chiede di essere colto all'interno di un gioco peculiare - il gioco della ricezione estetica. Solo all'interno della situazione pragmatica della ricezione un dipinto acquista il suo senso più pieno e la sua piena valenza estetica. Di qui la domanda che vorremmo ora porci: vi è una dimensione pragmatica della cornice? - un interrogativo quest'ultimo cui credo si debba rispondere affermativamente.

Annotazione. Una lettura più articolata delle considerazioni che abbiamo proposto relativamente alla poetica di Mondrian ed una discussione delle ragioni immaginative che sottendono la sua riduzione dello spazio figurativo ad un intreccio di linee ortogonali può essere tratta dal libro di Giovanni Piana, Mondrian e la musica, Guerini, Milano 1995.


2. La pragmatica della cornice

La cornice è spesso un oggetto riccamente ornato su cui tuttavia lo sguardo non si sofferma quasi mai: di qui dobbiamo muovere per cercare di far luce sulla dimensione pragmatica della cornice. La cornice è un oggetto che può essere bello ed ornato, e che un tempo si era soliti dipingere d'oro: la cornice deve saper attirare l'attenzione. Ma non è la meta dello sguardo: dalla cornice l'occhio fugge verso l'immagine dipinta, che chiede tutta per sé l'attenzione dello spettatore. Ora, da questo apparente paradosso possiamo liberarci facilmente se dalle altezze dell'arte discendiamo sino ad immergerci nel traffico delle nostre città: le strade sono piene di cartelli di pericolo che debbono essere ben visibili, ma che servono solo se ci ricordano di guardare attentamente la strada, i suoi incroci o i bambini che stanno per attraversarla. Le cornici sono come i cartelli stradali: rubano il nostro sguardo per restituirlo ad altro, e ciò che deve attirare su di sé l'attenzione solo per stornarla verso un'altra meta ha carattere di segno. Le cornici sono dunque, tra le altre cose, frecce che additano ciò che sulla tela si mostra.

Riconoscere che la cornice è un segno vuol dire in primo luogo disporsi nella prospettiva migliore per comprendere alcuni tratti della sua forma. Un segno deve essere percepibile come tale: la cornice deve avere allora una forma astrattamente geometrica ed un colore che tradisca la sua volontà di distinguersi dalla parete che la ospita. Anche le povere cornici del presente obbediscono a questa regola: sono rettangoli di legno scuro e per questo risaltano sulle pareti bianche delle nostre case. Ma la cornice deve saper anche attirare lo sguardo, e questo è tanto più vero quanto meno appariscente è il quadro: un'immagine di piccole dimensioni può avere bisogno di una cornice importante, che sappia darle il dovuto risalto, ed il passe par tout che spesso circonda le stampe e i dipinti non è che un mezzo per ampliare la visibilità del quadro rendendo più facilmente percepibile il segno che lo addita. Ed in questo caso la cornice è davvero simile al colpo di tosse cui un oratore trascurato affida le sue possibilità di farsi finalmente ascoltare.

Sulla base di queste poche considerazioni vorremmo dunque ribadire la tesi secondo la quale la cornice è una freccia che addita lo spazio figurativo, richiamando la nostra attenzione dal mondo reale al mondo dell'immagine. Ora, dire che la cornice è una freccia significa evidentemente sottolinearne la natura di deittico, e la deissi è un gesto che allude ad una situazione pragmatica: una freccia non denota nulla, ma indica ora e a chi la guarda un oggetto che deve comunque cadere nel suo campo visivo. Così stanno le cose anche per la cornice. Proprio perché è qui di fronte a me, la cornice sa attirare il mio sguardo per presentarmi poi l'immagine che racchiude. In un certo senso riscopriamo qui ciò che ci è già nota: la cornice, avevamo osservato, contrassegna il luogo di accessibilità dell'immagine.

Ma questa tesi deve assumere ora un indice pragmatico del tutto nuovo: nel suo indicarne lo spazio, la cornice può farsi carico dell'immagine e presentarcela. La cornice non si limita più ad aprire lo spazio dell'immagine, ma lo apre per noi - lo presenta ad uno spettatore.

Il luogo assegnato all'immagine ci appare ora come il risultato di un gesto che assume una valenza comunicativa: la cornice ci presenta il mondo immaginario che in essa si dispiega. E se ci poniamo in questa prospettiva la cornice diviene un segno che ha una funzione dialogica: di essa il quadro si avvale per rivolgersi a noi.

R. Magritte, La rappresentazione, 1937

E tuttavia è evidente che la condizione cui è vincolato questo presentarsi è interamente racchiusa nel porsi della cornice come una freccia che qualcuno ha volutamente posto per attirare la nostra attenzione.

Nella forma della cornice deve dunque potersi esprimere la decisione di chi ci invita ad osservare l'immagine: nella forma astrattamente geometrica della cornice che decide lo spazio figurativo, ritagliandolo con un gesto di arbitrio che non obbedisce alla natura degli oggetti dipinti, si vede così la volontarietà del segno e quindi anche la possibilità di una situazione dialogica.

Così, non è un caso se la mente acuta di Magritte, per costringerci a riflettere sull'esiguità del discrimine che separa le immagini dalla realtà e per indebolire conseguentemente il gesto impositivo del pittore che ci invita a guardare dal mondo di tutti il mondo immaginario da lui creato, ci invita ad osservare che cosa capiti ad una scena dipinta quando la cornice che la racchiude, persa la sua consueta forma geometrica, non si impone più percettivamente come il frutto di una decisione e di una volontà espressiva ma obbedisce ora alla forma degli oggetti raffigurati sottolineandone la consistenza, ora alla casualità di un evento imprevisto.

Basta rinunciare a quel "quadrangolo di retti angoli" che Alberti ci invita a tracciare perché la cornice, ridotta ad una forma naturale o ad una casuale apertura, smarrisca quella funzione comunicativa che altrimenti tacitamente le compete.

R. Magritte, La risposta imprevista

La risposta che la tela restituisce al nostro sguardo diviene così una risposta inattesa (vedi anche M. Battistini, Le figure della cornice nell'arte del xx secolo, in "Le parole della filosofia", Seminario di filosofia dell'immagine, III, 2000).

Le considerazioni che abbiamo appena proposto sono tuttavia suscettibili di essere ulteriormente arricchite e la dimensione pragmatica su cui ci siamo appena soffermati può essere ora fatta valere anche nei diversi scenari in cui la cornice ci era parsa implicata. La cornice - avevamo osservato - non si limita a circoscrivere il luogo in cui l'immagine si fa accessibile, ma ne sottolinea anche la chiusura e quindi l'autonomia di significato: racchiuso nella cornice vi è uno spettacolo che chiede di essere colto in se stesso. Ora, questo stesso ordine di considerazioni deve apparirci in una nuova luce: se la cornice ha una funzione pragmatica, l'autonomia di significato dell'oggetto immaginativo deve assumere il senso di una promessa che viene rivolta allo spettatore. La cornice è un segno: indica qualcosa. Ma lo indica attraverso se stessa: la scena dipinta verso cui il nostro sguardo viene attivamente rivolto è pur sempre una scena il cui senso si dispiega anche in virtù della cornice. Ora, la cornice che delimita percettivamente la scena, che rende invisibile ed inoperante il confine che essa stringe con il mondo reale e che ci invita a cercare soltanto al suo interno il senso dello spettacolo che si dipana sotto i nostri occhi non può che indicare l'immagine rammentandone insieme la chiusura. La cornice che addita l'immagine si fa così garante del fatto che nello spazio che essa racchiude avverranno cose memorabili. Ma ciò è quanto dire che la cornice si assume - e ci invita ad assumere - un impegno: nel suo indicare e racchiudere la scena dipinta la cornice esprime da un lato una decisione - proprio questo e non altro è lo spazio che merita di essere incorniciato - e rivolge dall'altro una vera e propria ingiunzione allo spettatore che deve far propria quella decisione e rivolgere il proprio sguardo là dove la cornice indica. Ed è per questo che le cornici vuote e viste dal retro di Gijsbrechts suscitano nello spettatore lo stupore deluso di una promessa non mantenuta.

Cornelius Gijsbrechts, Il retro di una tela dipinta

 

All'interpretazione dialogica della chiusura come autonomia del significato deve del resto affiancarsi l'eco pragmatica che la cornice proietta sulla cesura che separa lo spazio reale dallo spazio dell'immagine. Che la cornice offra lo schema intuitivo che permette di accostare la percezione alla grammatica degli oggetti immaginativi lo avevamo già detto; ora dobbiamo sottolineare invece la valenza pragmatica di questo fatto: nel suo presentarci l'immagine ben racchiusa nel suo abbraccio, la cornice si rivolge allo spettatore rammentando il carattere di immagine dell'immagine, il suo giocarsi in un universo che non può in linea di principio sconfinare nella realtà. La cornice agisce così come le clausole che aprono e chiudono certi giochi infantili: le conte che stabiliscono i ruoli, i rituali che precedono il gioco, proprio come l'imperfetto di narrazione che introduce l'accadere dell'evento situandolo in un passato che ha solo il compito di distoglierci dal presente, valgono come un messaggio che la coscienza desta rivolge all'immaginazione per invitarla ad occupare la scena e, insieme, per avvertire se stessa del fatto che tutto ciò che accadrà ha la consistenza di ciò che è soltanto gioco e racconto. La cornice intorno al quadro vale così come un messaggio che ci tranquillizza: nel suo presentarci il quadro come un quadro, nel suo proporci la scena dipinta privandola, con la sua stessa presenza, di un'eccessiva valenza illusionistica, la cornice rassicura lo spettatore e gli rammenta la distanza che separa il mondo reale degli eventi dal racconto che la pittura gli pone sott'occhio. Ed in questo contesto la cornice ci appare come uno strumento di natura pragmatica che, rivolgendosi allo spettatore, lo rassicura, promettendogli in premio la serenità dell'immaginazione. Ed anche in questo caso la funzione della cornice si lega ad un insieme di scelte che concernono la poetica dell'immagine e che ci mostrano come sia possibile giocare con la cornice per dare alle immagini un'inclinazione di senso particolare.


3. La semantica della cornice

Le nostre considerazioni potrebbero chiudersi qui, poiché di fatto le funzioni della cornice si muovono sul duplice piano che abbiamo precedentemente delineato. E tuttavia basta riflettere un poco sulla funzione di segnale della cornice per rendersi conto che ciò che determina il contesto pragmatico dell'immagine ha, per così dire, già da sempre una mano sul suo contenuto di senso. Rendersene conto non è difficile. Se la cornice è un promessa di senso, non basta forse impoverire ciò che l'immagine concretamente ci porge perché la dimensione pragmatica del messaggio diventi infine l'unico contenuto espressivo del quadro? Per un'arte che ama muoversi nei metalinguaggi, la volontà comunicativa finisce con l'essere l'unico possibile messaggio - ed un quadro di Frank Stella che ci presenta un insieme di cornici concentriche che non racchiudono altro se non se stesse può forse essere inteso così: come il ripetersi di una promessa che non verrà mantenuta. La cornice diviene così il mezzo per esprimere l'ossessione della pagina bianca e, insieme, il farsi avanti del dubbio che vi sia davvero qualcosa che meriti di essere incorniciato.

Ma è possibile seguire un differente cammino che non ci chiede di addentrarci nella complessità dell'arte contemporanea. La cornice ha un suo luogo privilegiato: il quadro, ed il quadro è un certo tipo di immagine che appartiene ad un'epoca della storia dell'arte figurativa - l'epoca in cui la pittura abbandona le chiese e le camerae pictae per entrare nelle case come un oggetto artistico. L'età del quadro è insieme anche l'età della cornice, di questo mezzo che sostiene percettivamente e pragmaticamente l'immaginazione nel suo porre i propri oggetti come oggetti che prendono esplicitamente commiato dalla realtà. L'età della cornice è anche l'età della serenità dell'arte, - un'affermazione questa in cui non è difficile cogliere ancora una volta l'aprirsi di quel varco che permette alle condizioni pragmatiche della ricezione dell'immagine di fare sentire la propria voce sul piano del contenuto.

Approfondire quest'ordine di considerazioni sarebbe senz'altro importante, ma ci costringerebbe ad addentrarci nei capitoli di una storia delle cornici, - una storia che non saprei tracciare, ma che non dovrebbe essere abbandonata agli interessi di una curiosità erudita, poiché si intreccia con la storia delle differenti forme dell'immagine e delle diverse modalità dell'atteggiamento ricettivo. Ma se a questo compito non posso far fronte, vorrei invece dedicare qualche rapida riflessione conclusiva sul valore semantico della cornice, rivolgendo lo sguardo a quelle immagini in cui la cornice entra nel quadro, proponendosi come un momento del suo contenuto - a quelle immagini che ospitano una cornice dipinta.

Quale sia in generale il significato della cornice dipinta è presto detto: il gesto pittorico che fa della cornice un momento interno allo spettacolo che il quadro ci propone non può fare altro che recuperare al contenuto espressivo dell'opera una (o più di una) delle diverse funzioni che alla cornice come oggetto reale spettano nel contesto della ricezione di un quadro. Il valore semantico della cornice deriva così da ciò che la grammatica e la pragmatica della cornice debbono mettere in luce. Una sinossi generale delle forme della grammatica e della pragmatica della cornice sarebbe quindi in grado di mostrare il cammino che si deve seguire per delineare lo scheletro delle possibili forme di significato delle cornici dipinte.

Lo scheletro, non ancora la forma compiuta: quale siano i significati che la cornice può assumere quando diviene oggetto di raffigurazione non si può anticiparlo a priori, - si può solo cercare di predisporre un insieme di considerazioni che ci aiutano ad orientarci di fronte alla molteplicità aperta delle istanze espressive. Il filosofo non è un pittore che non abbia voglia di dipingere; il suo non è un lavoro creativo: al filosofo non spetta altro compito se non quello di cercare di far luce sui concetti che sono implicati nelle diverse forme della prassi, e quindi anche nella prassi pittorica.

Di qui il senso delle nostre considerazioni e degli esempi che sono chiamati a dar loro maggiore vivacità e pienezza intuitiva. La cornice, avevamo osservato, è un mezzo che sorregge la percezione nel suo articolare ciò che si consegna allo sguardo secondo il dettato di una distinzione ontologica: da una parte vi è lo spazio ambientale, dall'altra lo spazio immaginario racchiuso dalla cornice. Su questa dualità la cornice dipinta può intervenire, articolando in una molteplicità di livelli lo scarto tra realtà e finzione. Potremmo forse esprimerci così: la cornice o le cornici dipinte scandiscono nell'unità di un percorso il salto ontologico cui l'immaginazione pittorica ci invita. Ma quale sia poi il significato concreto che questo percorso assume è solo il gioco linguistico storicamente determinato della ricezione pittorica a definirlo. Nella pittura rinascimentale questo cammino assume una forma definita: segna le tappe di un itinerario che va dallo spazio profano dello spettatore allo spazio sacro dell'immagine. Proprio come nelle antiche chiese lo spazio del culto era protetto da uno spazio intermedio - il nartece in cui erano confinati i catecumeni - o da un portale incastonato di immagini - l'iconostasi delle chiese ortodosse - così in molti quadri una cornice dipinta crea un itinerario possibile che dallo spazio sacro racchiuso nella cornice dipinta conduce allo spazio profano dello spettatore, attraverso un cammino che passa per quella parte dell'immagine che separa l'una dall'altra cornice. Ora, per rendere vivo questo percorso e per dargli l'unità di un cammino l'arte pittorica deve piegarsi ad alcune scelte di fondo: deve farsi pittura prospettica per creare continuità tra lo spazio reale e lo spazio pittorico e deve infrangere la quarta parete proponendo aggetti dipinti, secondo una tecnica tipica del trompe l'œil. Ma ciò che ora ci importa sottolineare è che la continuità del cammino è comunque scandita dal susseguirsi delle cornici: se un cammino vi è, è importante sottolineare che quel cammino ha passi, poiché non è certo possibile dissolvere nell'unità del continuo il movimento dal sacro al profano. Molti esempi sono possibili: vorremmo tuttavia limitarci a mostrarne alcuni, tratti da un pittore grandissimo con una grandissima sensibilità teorica - da Giovanni Bellini.

G. Bellini, Madonna della mela, 1460

G. Bellini, Pietą, 1471-1474

G. Bellini, Madonna Morelli, 1480-90

Qui, seppure in forme diverse, ci parla un unico tema: è il tema di Cristo, del dio uomo che muore per gli uomini. Il movimento dallo spazio sacro allo spazio degli uomini, scandito dalla cornice che viene oltrepassata, diviene così una metafora ricca di senso: il corpo di Cristo che viene sospinto dallo spazio figurativo verso lo spazio dello spettatore diviene un modo per dare consistenza visiva al significato spirituale dell'eucarestia.

van Hoogstraten, Vista da un corridoio, 1662

Sarebbe tuttavia un errore credere che il gioco delle cornici dipinte debba necessariamente suggerire un cammino tra il sacro e il profano. Nell'arte barocca il gioco delle cornici può servire per mettere in scena la precarietà del confine tra realtà e sogno, tra vita e rappresentazione, e un possibile esempio ci è offerto da un quadro famoso come Las Meninas di Velázquez (cfr. su questo tema P. Spinicci, La filosofia nelle immagini: Las Meninas di Velázquez e il concetto di raffigurazione, "Le parole della filosofia", Seminario di filosofia dell'immagine, II, 1999).

E se poi giochiamo con la somiglianza che lega la cornice delle porte alla cornice del quadro, la fuga di stanze che Samuel van Hoogstraten ci propone suggerisce percettivamente l'idea che la stanza in cui siamo si apra su un nuovo corridoio e su nuove stanze: le cornici delle porte nel quadro trasformano così la cornice del quadro in una nuova porta. Nella successione delle cornici dipinte si attenua così il significato di cesura che la cornice reale solitamente pretende di avere.

Infine, in alcuni quadri di Magritte la cornice dipinta suggerisce un percorso che ha il sapore straniante del surrealismo: in Il mese della vendemmia (1959) la metafora rinascimentale della finestra ci appare alla luce di un'ironia destinata a travolgerla, e realtà e finzione scambiano i loro ruoli, proponendo in altra forma lo stesso dubbio sulla consistenza extra-pittorica (o più che rappresentativa) della realtà che pervade le diverse tele che Magritte intitola La condizione umana.

R. Magritte, La condizione umana, 1935

R. Magritte, Passeggiata euclidea, 1935

C. M. Escher, La pinacoteca cittą

La cornice, tuttavia, non è soltanto segno di uno scarto ontologico: è anche il fondamento percettivo della chiusura dell'immagine - una chiusura che, grazie ad una cornice dipinta, può essere irrisa o comunque messa in discussione.

In un disegno di Escher, in virtù di una complessa operazione geometrica, il quadro che uno spettatore osserva in un museo si proietta fuori dai confini della cornice, per ricreare da sé quel mondo in cui lo spettatore vive ma che al contempo ospita la cornice che sembrava sforzarsi di racchiuderlo. Il pensiero antico che il quadro sia un mondo in cui immergersi diviene lo spunto per un'operazione fantastica che sembra spezzare i legni della cornice solo per lasciarli richiudere alle spalle dello spettatore

C. Crivelli, Polittico di Massa Fermana, 1461

Del resto, una radicale messa in questione della chiusura dell'immagine può essere attinta non già dipingendo cornici, ma affiancandole nel disegno di un quadro più ampio. In un certo senso, questo è ciò che accade in ogni polittico: qui vari quadri si uniscono nell'unità di un quadro più ampio, ed in questo gioco di immagini le cornici reali delle parti divengono un momento del contenuto dell'intero, e la chiusura dell'immagine ne risulta indebolita. Nei suoi polittici, Crivelli segue una regola precisa: se vi è un registro superiore, pone sopra alla figura centrale della Madonna con il bambino l'immagine della Pietà - il senso di una scena si completa con l'altra, e spesso proietta la sua ombra sulla scena dell'Annunciazione che affianca la Pietà nei polittici di Massa Fermana e di Camerino.

Si tratta di una forma espressiva ben nota: è la forma drammatica della prolessi che getta un velo tragico sulla maternità di Maria e, ancor prima, sull'annunciazione, su questo mysterium terribile che promette insieme vita e morte. Ma non è ora questo il tema su cui vogliamo riflettere. Se è opportuno soffermarsi ora su questo gioco di immagini che si radica nella tradizione tematica delle icone bizantine è solo perché nella relazione che lega le tavole le une alle altre, la funzione di chiusura della cornice è posta al centro di una complessa dialettica. La cornice di ogni singola tavola è infranta, ma è solo all'interno di una più ampia cornice che questo movimento di apertura può aver luogo - almeno sinché ci soffermiamo sui polittici del Crivelli.

R. Magritte, L'evidenza eterna

Che cosa dire invece di questo peculiare "polittico" di Magritte che, a dire il vero, non ricorda nemmeno per il contenuto i polittici della nostra tradizione.

Qui per una cornice unitaria non vi è più posto: abbiamo invece solo cinque quadri, ben distinti nelle loro cinque semplici cornici. Ma il quadro, ciò nonostante, è uno, poiché solo uno è il soggetto che corre dietro le cornici, diventando accessibile allo sguardo soltanto là dove la tela lo manifesta.

Ora, in questo gioco irriverente non è difficile scorgere un'idea che, in questo contesto, ci interessa particolarmente: se questo "polittico" ha un senso, esso deriva proprio dalla sua capacità di mettere in questione la chiusura dell'immagine, la sua pretesa di costituire un mondo a parte. Il colpo di forbice della cornice non riesce a racchiudere al suo interno lo spazio figurativo, e il sogno della finzione "scappa" al di là della tela.

Il senso di questa complessa immagine sorge così dal ripetersi del fallimento delle pretese della cornice, un fallimento che deve valere come un implicito riconoscimento del fatto che l'immagine non è soltanto il frutto di una decisione dell'artista, ma qualcosa che ha almeno tanta realtà quanta ne ha il pittore che la dipinge. Schopenhauer diceva che il sogni e la vita sono pagine dello stesso libro, e che il vivere è una lettura ordinata, laddove il sogno apre a caso quel libro e legge ogni notte una pagina che non continua le altre. Il gioco di Magritte è tutto qui: il sogno è costretto in una regola, e le pagine dell'immagine si continuano l'una con l'altra. Sarebbe tuttavia un errore credere che in questo gioco di negazioni la funzione della cornice sia davvero negata. La dimensione onirica della surrealtà implica evidentemente proprio quella distinzione tra sogno e veglia che pure sempre di nuovo nega, ed è appena il caso di dire che la possibilità di un'immagine come quella che Magritte qui ci propone poggia concretamente sulla funzione di cesura della cornice e sul rinnovarsi dello stupore di una continuità impossibile, - uno stupore che verrebbe meno insieme al senso del quadro se le cornici e la loro pretesa assolutezza ci apparissero come tante finestre allineate che ci permettono di vedere solo in parte ciò che sta dietro di esse.

V. van Gogh, Autoritratto con stampa giapponese

Non credo sia difficile trovare esempi che ci permettano di giocare sul terreno semantico le altre funzioni grammaticali e pragmatiche della cornice che abbiamo messo in luce, e forse sarebbe opportuno rammentare che una cornice dipinta può assolvere ad una funzione tanto ovvia, quanto ricca di possibili sviluppi: in un quadro si possono raffigurare altri quadri, ed in questo caso la cornice dipinta diviene un mezzo per rendere visibile l'atteggiamento ricettivo ed il contesto interpretativo che in generale si ritiene debba competere ad un'immagine. Così, un quadro può ospitare un'icona ed indicare quanta devozione si debba tributare ad una simile immagine; ma è possibile anche un gioco interamente diverso: si possono fingere quadri in un affresco come ci propone il Carracci nella Galleria Farnese (si veda a questo proposito Lia Brambilla, Annibale Carracci e la galleria Farnese, in "Le parole della filosofia", Seminario di filosofia dell'immagine, III, 2000) allo scopo di moltiplicare con gusto barocco l'intrico dei rapporti tra rappresentazione e realtà, ma si può anche voler rammentare l'importanza che altri quadri hanno avuto nel determinare uno stile pittorico - ed è questo il caso delle stampe giapponesi che si intravedono in un autoritratto di Van Gogh.

Anche in questo caso gli esempi potrebbero essere moltiplicati, e sarebbero senz'altro utile farlo anche se si deve essere consapevoli del fatto che da un punto di vista teorico non è affatto possibile tracciare qualcosa come una sinossi di tutte le possibilità semantiche della cornice. Lo abbiamo già detto: quello che si può fare è disegnare un abbozzo di schema e lasciare poi alle opere dei pittori il compito di mostrare in che modo lo scheletro delle funzioni possa prendere concretamente vita e quali ramificazioni siano concretamente percorribili.

Del resto, molte immagini ci mostrano come il significato concreto di una cornice dipinta non sia riconducibile ad una delle sue funzioni, ma al loro fondersi in un gioco complesso, che deve essere di volta in volta dipanato. E per imbattersi in questioni complesse e in raffinati esperimenti teorici con la cornice non vi è davvero bisogno di attendere l'arte contemporanea.

G. Bellini, L'incoronazione della Vergine

Così, per concludere, vorrei richiamare l'attenzione ancora una volta su Giovanni Bellini e su un suo quadro con una grande e bella cornice esterna ed un'enigmatica cornice interna: la Pala Pesaro. La cornice dipinta racchiude innanzitutto in sé una visione di dolci colline e castelli e la dispone in una relazione mediata con la scena sacra che occupa il primo piano dell'immagine: racchiuso nel varco che si apre nel trono, il paesaggio guadagna così una sua separatezza dalla scena narrata, e si pone come un angolo di natura che può essere osservato in se stesso, proprio perché è racchiuso come un quadro in una cornice o - ed è così che ci invita a leggerlo Eugenio Battisti - come uno sfondo che rende visibili in forma simbolica gli epiteti della Vergine. Il paesaggio lontano che si disegna al di là dell'incoronazione offrirebbe così un sostegno visivo alla memoria dei salmi e degli inni che ci ricordano che Maria è cielo senza nuvole, prato fiorito, solida torre, collina tra le montagne, e così via.

Ma il vano che si apre nel trono e che lascia intravedere il gioco delle colline lontane sembra circoscrivere anche ciò che si trova davanti a sé: la cornice sembra infatti racchiudere il volto di Maria e di Gesù, separando così il nucleo sacrale dell'immagine dallo spazio della conversazione tra i santi che lo circonda. Si tratta di uno schema ben noto: la cornice dipinta propone un itinerario di fede allo spettatore, un cammino che è sottolineato dalla fuga prospettica degli elementi geometrici del pavimento e che rivela la sua complessa natura nel gradino che ne sancisce la discontinuità. Racchiuso nella cornice, lo spazio sacro che racchiude Gesù e sua madre si apre per gradi allo spazio dello spettatore, sottolineando insieme la funzione di mediazione dei santi, che per così dire aprono un varco e segnano il cammino tra l'uno e l'altro spazio. E ciò è quanto dire che il gioco delle cornici assume su di sé il compito di articolare in una precisa struttura di senso il rapporto tra il gesto che consacra Maria e lo spettatore che sta al di là del quadro e cui Francesco sembra rivolgersi.

Ma a questo significato vorremmo tuttavia provare ad affiancarne un altro, che sorge ancora una volta dalle molteplici potenzialità semantiche della cornice. E per addentrarci in questo ulteriore percorso interpretativo dobbiamo rivolgere ancora una volta lo sguardo al paesaggio che fa da sfondo, per cercare di coglierlo per ciò che comunque è: una visone dolce di colline e castelli che, al di là della sua eventuale eco simbolica, potrebbe essere percorsa anche da una vena autenticamente descrittiva: alle spalle della Vergine si possono forse riconoscere, seppure filtrati dagli stilemi rappresentativi del Bellini, il castello di Gradara e la valle del Foglia e le pendici del colle San Bartolo. Questo farebbe allora da sfondo all'incoronazione - ciò che nel 1471 si doveva vedere la sera da Pesaro rivolgendo lo sguardo pressappoco verso occidente, e questo rimando ad un tempo e ad un luogo determinati assume un senso più vivo se si legge la staticità della scena dell'incoronazione alla luce delle potenzialità semantiche della cornice: quei volti così fermi ed assorti e quel gesto così immobile con cui Cristo pone sul capo della madre la corona sembrano, in virtù dell'ornata cornice che li circoscrive, a loro volta i personaggi di un quadro, di un'icona che ricorda quei volti che un tempo gli uomini avevano potuto vedere. Nei trattati in difesa delle icone quel tempo lontano in cui il figlio di dio si è fatto uomo e ha preso sembianze terrene è il fondamento della legittimità delle icone e insieme rimpianto per un'età che non doveva affidarsi alle immagini per rendere visibile l'invisibile; ed è su questo stesso tema che Bellini ci invita a riflettere: sullo sfondo del luogo e del tempo in cui si dipana la vita di chi osserva il quadro, si dipinge un evento sacro che la cornice trasforma in quadro, in un'icona che ci invita a riflettere su uno scarto temporale che è da un lato espressione di una mancanza del presente - Gesù non è più visibilmente presente tra noi - dall'altro esibizione della funzione di supplenza che l'immagine esercita per lo spettatore. E se ci si pone in questa prospettiva la cornice diviene il mezzo per celebrare nel quadro il segreto dell'immagine - la sua capacità di rendere visibile ciò che non lo è più.

ottobre 2000

Paolo Spinicci

 

Seminario di filosofia dell'immagine

Le parole della filosofia, III, 2000


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